mercoledì 12 ottobre 2022

 

È in libreria

Il racconto narra le vicende di due personaggi legati dallo stesso cognome e, al di là del tempo che li divide, da un comune denominatore.

Il primo vive in Sicilia ai tempi del Vespro Siciliano ed è il secondogenito di un nobile e potente feudatario che, caduto in disgrazia per delle alleanze sbagliate, fugge a Napoli dopo avere affidato il figlio ad uno scalpellino che gli insegnerà il mestiere.

Il secondo vive e lavora, negli anni ’70 del secolo scorso, anch’egli in Sicilia. Costretto dalle necessità della vita a rinunciare agli studi universitari, accetta un lavoro in banca che per orgoglio, pur non amandolo, svolge al meglio delle sue capacità.

Le loro storie, in più particolari simili, procedono parallele fino a svelare, attraverso il sogno, qual è il forte legame che le accomuna.

Nelle ‘Note dell’autore’ sono riportati i fatti salienti della guerra del Vespro che insanguinò la Sicilia e parte del Meridione d’Italia.


mercoledì 21 novembre 2018

6 novembre 2018

Presentazione de: 
L'iniziazione nei Versi d'oro di Pitagora e nel Commento di Ierocle



mercoledì 10 ottobre 2018

6 ottobre 2018

Presentazione de: 
L'iniziazione nei Versi d'oro di Pitagora e nel Commento di Ierocle



martedì 10 luglio 2018



Benvenuti nel blog


"Un blog" - così lo definisce Wikipedia - "è un particolare tipo di sito web i cui contenuti vengono visualizzati in forma cronologica. In genere un blog è gestito da uno o più blogger che pubblicano, più o meno periodicamente, contenuti multimediali, in forma testuale o in forma di post, concetto assimilabile o avvicinabile a un articolo di giornale". 
Sì, va bene, mi son detto; ma a che serve un blog? Indubbiamente a fare pubblicità ad un prodotto, che può essere costituito dal proprio modo di pensare o, in altri casi, da un vero e proprio prodotto fisico. Nel mio caso si tratta di tutte e due le cose, perché chi scrive trasmette le proprie idee a chi dovesse leggere i suoi libri.

Ma al di là del prodotto, un blog è uno strumento interattivo, dove tutti possono 'postare' i propri pensieri e che produce, quindi, un continuo scambio di opinioni e osservazioni. Solo in questo caso si può dire che lo strumento sia servito a qualcosa. E' quello che spero di riuscire a fare, dedicandovi un po' di tempo e, soprattutto, con il vostro aiuto. 
E allora, per buon augurio, è il caso di brindare - virtualmente, s'intende - alla nascita di 'nibarlibri'.

Prosit!   










Ho iniziato a inserire nel blog, sotto forma di post, dei racconti di non più di mezza pagina ciascuno. Li trovate nella pagina Ministorie.

Volete cimentarvi anche voi? Se sì, inviate i vostri contributi come commenti; ne potrebbe nascere una raccolta da pubblicare in rete.

domenica 8 luglio 2018

8 luglio 2018



È in libreria un mio nuovo SAGGIO



Il presente saggio tratta dei Versi d’Oro di Pitagora, tradotti ex novo, e del Commento di Ierocle agli stessi, che notevolmente ne amplia il significato. Nell’occuparsene, l’autore riporta alcune notazioni dei maggiori esoteristi che di essi hanno scritto e introduce delle considerazioni relative a forme iniziatiche tuttora in essere. In particolare farà principalmente riferimento alla Libera Muratoria perché, se di iniziazione si parla, non si può fare a meno di confrontarsi con essa, dato che conserva tuttora nei suoi Rituali il deposito della Tradizione.
Nel corso della trattazione l’autore espressamente nota come, contrariamente a quanto qualche commentatore ha invece in passato asserito, i Versi non siano solo un elenco di precetti che qualsiasi uomo dotato di buon senso, di onestà intellettuale, di specchiata moralità può condividere e mettere in pratica. Ben altro che questo è il fine dell’esoterismo e dell’iniziazione che da esso può conseguire; e man mano che ci si addentrerà nella lettura il loro vero valore risulterà ben evidente.

lunedì 1 giugno 2015

29 maggio 2015

Presentazione de 

Introduzione alla Libera Muratoria 
[istruzioni per l'uso]












martedì 12 agosto 2014

IL CASTELLO DI TURA - Cap. I

  

Cap. I

Alma



 Calaltura, il paese della mia infanzia, non esiste più. O, per dire meglio, non è più quello dei miei ricordi. Oggi è un ammasso di case nuove, di viali senza un albero, di piazze assolate e senza panchine, un caos di macchine posteggiate in doppia fila e di moto rombanti. Non ci andate, non ne vale la pena. A meno che… a meno che non vi piaccia girare la sera fra le bancarelle che vendono cianfrusaglie, farvi assordare dalla musica a tutto volume, mangiare male e pagare molto, litigare con questo o quello per chi per primo ha visto il buco – rigorosamente in divieto di sosta –  dove posteggiare la macchina, bighellonare fino alle tre del mattino aspettando che uno dei tanti bar sforni i cornetti ai gusti più improponibili e fare la fila per comprarli. E di giorno, in estate, stare stipati sulla spiaggia ad arrostire al sole, fra bambini che vi urtano, mamme che gridano, papà maleducati che giocano a pallone sulla battigia.
Non era così quando ci sono cresciuto io. Allora era un paese di appena cinque o seimila abitanti equamente divisi fra pescatori e agricoltori. E ci si viveva bene.
In quel punto, a una diecina di chilometri dalla città, la costa fa una rientranza e nel centro di quel piccolo golfo c’è un porticciolo di pescatori, a ridosso di una bassa collina quasi piatta. Un posto benedetto da Dio, perché il mare è pescoso e la terra della collina era fertilissima, irrigata dall’acqua di un fiumiciattolo che sfociava in mare fra la vicina città e il paese.
Sì, ho proprio detto era e poi sfociava, perché meno di trent’anni fa è stata costruita a monte una diga per sopperire alla necessità di energia elettrica di quella che, a pochi chilometri da Calaltura, sarebbe diventata quasi una metropoli. A valle della diga il fiume si è ridotto a un rigagnolo e quelli che erano frutteti e orti si sono trasformati in villette, costruite a ridosso l’una dell’altra. Dove credete che sfocino le fognature di quell’ammasso di costruzioni? Il mare forse è diventato ancora più pescoso, gli abitanti della zona hanno sviluppato gli anticorpi del caso, ma i turisti – e oggi sono molti – ogni tanto si prendono qualche gastroenterite. Ritornano lo stesso però, per la fortuna di Calaltura e dei suoi abitanti.       
Calaltura: ci sono due diverse etimologie per spiegarne il nome. La prima, la più semplice, combina insieme cala e altura. La seconda si basa, invece, su quello che restava – ben poco, pietre diroccate e qualche pezzo di muro – di un castello probabilmente risalente alla conquista araba della nostra isola. Restava, dicevo, perché ormai quei ruderi non sono più visibili, coperti come sono dall’asfalto e dal cemento. Kalat el T…, il castello di chissà chi.
Il Castello di Tura, come mia sorella ed io lo chiamavamo, era la meta preferita delle nostre scorribande quand’eravamo bambini. E non lo era solo fisicamente. Spesso la notte, prima di addormentarci, o nei pomeriggi assolati in cui costava fatica anche a noi muoverci e andare in giro, mia sorella diceva: «Andiamo?».
Ed io rispondevo: «Sì, sono pronto. Andiamo
».
E la magia dell’immaginazione ci trasportava all’indietro nel tempo, novecento o mille anni prima, in un castello fatato. Da lì regnava, su tutta quella parte di costa, l’emiro Tura; un personaggio fantastico che c’eravamo inventati dopo avere sentito il maestro della scuola parlarci di quella seconda possibile etimologia.
A volte sognavo di essere un cavaliere della scorta, altre l’emiro stesso, altre ancora un ricco mercante che tornava dai paesi dell’oriente con la sua nave carica di stoffe preziose, spezie e profumi. Mia sorella era invece, sempre, la preferita dell’emiro. E ogni volta desiderava, ma non sempre la accontentavo nel sogno ad occhi aperti, che io fossi il Capo delle Carovane.
Abitavamo in una vecchia casa ai margini del paese, proprio sotto la scarpata della collina e a quei tempi c’era poco da stare allegri, anche se i nostri genitori lavoravano tutti e due. Mia madre allo stabilimento che inscatolava il pesce azzurro e dava lavoro a metà delle donne del paese e mio padre in una ditta di spedizioni, collegata alla fabbrica, dove faceva il ragioniere. E io non riuscivo a capire cosa ci fosse mai da ragionare per spedire il pesce in conserva.
Aprivamo spesso di quelle scatolette a pranzo o a cena e ogni volta, mentre papà trafficava con l’apriscatole, Alma – mia sorella – mi sussurrava all’orecchio: «Stavolta, ne sono sicura, non è come le altre volte. Stavolta è davvero azzurro».
E ci rimaneva ogni volta male nel vedere lo sgombro color crema o i filetti d’acciuga marrone. Si era convinta che se il pesce nella scatola fosse stato davvero del colore del mare, allora lei, io, papà e mamma ci saremmo trasferiti per incanto nel castello di Tura, alla corte dell’emiro. O forse papà sarebbe diventato lui stesso l’emiro. 
Con padre e madre che lavoravano entrambi, eravamo cresciuti liberi, senza restrizione alcuna se non quella di essere a casa un’ora prima del pranzo o della cena. In un paese piccolo come il nostro, dove tutti si conoscevano e si rispettavano, non c’era nessun problema. I nostri genitori stavano tranquilli e la giornata era tutta per noi.


Alma era di tre anni più piccola di me, ma molto più vivace. Io sono stato sempre un sognatore – e per certi versi, con un lato della mia personalità, lo sono ancora – mentre lei era svelta come un furetto, anche quando sognava ad occhi aperti. Mentre chiedeva «Andiamo?» era già per strada e dovevo correrle dietro per non perderla di vista. Piccolina e magra come un chiodo, con i capelli chiari sempre spettinati, il moccio che le colava dal naso estate o inverno che fosse, non riusciva a stare ferma un attimo. Ma ero io il più grande e la responsabilità era mia.
«Alma!… Alma!... Aspettami! Se cadi o ti perdi finisce che le busco».
Scappava via ancora più veloce, canzonandomi: «Non cado e non mi perdo. Non ce la fai a venirmi dietro, sei lento... Sei scemo!».
Era una corsa continua per andarle appresso.
Altra meta preferita, oltre al castello, era il porticciolo all’altro capo del paese. Aspettavamo le barche dei pescatori che tornavano nella tarda mattinata e le vedevamo come fossero velieri carichi d’ogni ben di dio. E quando, prima di sera, uscivano quelle che sarebbero state fuori per tutta la notte, nella nostra immaginazione erano zeppe di guerrieri che partivano per le loro spedizioni punitive e andavano a saccheggiare la città che s’intravedeva in lontananza, sulla destra del molo. Avremmo voluto aspettarle fino all’alba, quando sarebbero rientrate cariche di tesori e di schiavi, ma non c’era permesso.
Una volta lo chiesi a mio padre: «Papà, posso dormire al porto?».
«E perché vuoi dormire al porto?».
Giocavamo spesso, con mio padre, a inseguire i miei sogni e non mi vergognai di dirgli: «Perché voglio vedere le navi che tornano cariche di schiavi e di tesori, dopo aver saccheggiato la città».
«Non puoi, ora. Mamma starebbe preoccupata. Ma fra qualche anno potrai farlo».
Ci credereste che lo feci davvero? Dopo tanti anni, tornato in ferie al paese a trovare mia sorella, una notte non andai a dormire e rimasi al porto ad aspettare. Ormai uscivano solo le barche dei turisti, e solo di giorno, ma con gli occhi del cuore vidi egualmente i velieri che scivolavano lenti sull’acqua appena increspata, illuminata dalla luna bassa sull’orizzonte, e mi parve anche di sentire le grida d’esultanza dei guerrieri a bordo e della gente che li attendeva sulla banchina.
Alma era una bambina davvero strana e lo divenne ancora di più dopo aver compiuto i cinque anni. Si fece taciturna e lo sguardo era profondo, assorto, anche quando giocava. Era come se vedesse cose che nessun altro poteva vedere e, come spesso fanno i bambini, parlava con certi suoi compagni di giochi immaginari.
«E che c’è di strano?» dicevano i miei «Tanti bambini lo fanno».
Era vero, molti dei nostri compagni di giochi lo facevano e anch’io a volte. Mai però con quell’intensità, con quel senso del reale che lei riusciva sempre a trasmettere agli altri.
Acquisì poi un’altra particolarità: sapeva sempre dove erano gli oggetti che qualcuno di noi aveva perso.
«Papà, lo sai che quando non trovo qualcosa, Alma mi dice sempre dove la debbo andare a cercare? E non si sbaglia mai».
«Vuol dire che sta attenta a tutto quello che fai e non le sfugge nulla. E che ha una buona memoria mentre tu, distratto come sei, non ti ricordi mai niente».
«Non è vero! Io non sono distratto. E non lo fa solo con me, lo fa con tutti».
La volli mettere alla prova. Una mattina le dissi che dovevo andare di corsa in bagno, mi ci chiusi dentro e saltai fuori dalla finestra. Traversai il cortile, corsi fino al viottolo che si addentrava nella campagna e raccolsi la prima cosa che vidi: un sasso bianco, un pezzo di calcare. Lo nascosi dietro un fico selvatico e tornai dentro. Feci passare un po’ di tempo e poi dissi ad Alma che non trovavo più quella pietra, che lei non aveva mai visto. Chiuse gli occhi, se ne stette immobile per un paio di minuti e poi mi chiese: «È bianca?».
«Sì».
«È grossa così?» e con le mani indicò quanto.
«Sì».
«Se ti dico dov’è, me la regali la barchetta che ti ha fatto papà?».
«No».
«E allora non te lo dico».
Pensai che presto avrebbe perso interesse a quel giocattolo, che altro non era se non un pezzo di legno scavato a forma di piroga, e che me lo sarei ripreso.
«Va bene. Te la do».
«Giura».
Giurai che gliela avrei data e lei mi portò fino all’albero: «Là dietro».
Oggi so come faceva: visualizzava il livello inconscio delle persone, quello dove si imprimono nei minimi particolari tutte quelle cose di cui normalmente non siamo coscienti. Era come se leggesse il pensiero non pensato: mio, degli altri compagni di giochi, di chiunque avesse davanti. Dopo tanti anni me lo confessò lei stessa e mi disse pure che da piccola non l’aveva mai detto per il timore che nessuno volesse più giocare con lei, perché si era resa conto che gli altri erano diversi. Crescendo perse la padronanza di quella capacità, che ora le tornava solo a tratti, all’improvviso, senza che potesse controllarla.
Accedendo a quel livello, percepiva anche la qualità delle persone. Sapeva, come per istinto, chi era buono e chi no; cosa ci si potesse aspettare da uno e cosa da un altro. E anche di questo perse man mano la padronanza. Ma capita all’improvviso che le torni e, guardandomi attentamente negli occhi proprio come faceva allora, mi mette in guardia.

Il nostro gioco preferito da bambini era quello del Castello di Tura, che ancora a tanti anni di distanza ricordo nei minimi particolari. Lo schema era sempre identico e le uniche varianti degne di nota accadevano prima che iniziasse, quando ci radunavamo a casa nostra per avviarci. Per esempio, quella volta…
Era estate e si capiva che la giornata, anche per la mancanza di vento, sarebbe stata molto calda. Tutta la banda era riunita già da mezz’ora nel cortile di casa nostra e aspettavamo che Alma desse il via per la solita spedizione ai ruderi del castello, ma lei non si decideva. Persi la pazienza: «Alma!... Che facciamo? Ce ne andiamo?».
«No! Ancora no».
«E perché no? Ci siamo tutti e già sono le nove. L’hai sentito l’orologio della chiesa, o no?».
Pippo, che ogni tanto provava a prenderla in giro per sminuirla ai nostri occhi, si fece una bella risata ammiccando verso di noi: «Perché, secondo te, sa contare?».
«Certo che so contare. Fino a cento!… E non ce ne andiamo fino a quando non lo dico io».
Anche Pietro intervenne: «E perché devi decidere tu? Chi ti credi di essere?».
«Ora sono Alma. Ma quando arriviamo al Castello divento la Favorita dell’Emiro. E se non la smettete, gli racconto tutto».
Il tutto cui accennava erano le incursioni nell’orto di Turi, che abitava in una casa colonica vicino ai ruderi. Ci viveva da solo. Doveva essere sui venticinque anni e irradiava un’aria di bontà tutt’attorno a sé.  Ogni volta che salivamo su e lui non c’era, scavalcavamo il muro di cinta e raccoglievamo la frutta matura, stando però bene attenti a non fare danni. Quando lo incontravamo lui, diceva: «Lo sapete che sono entrati di nuovo i ladri? Non è rimasto più un solo fico. Ma se li trovo… Gli do una ripassata col bastone a tutti quanti!».
Poi aggiungeva: «Quando salite al castello e io non ci sono, dateci un’occhiata alla casa e all’orto. Ditemelo se vedete qualcuno».
Avevamo tutti una gran paura che ci cogliesse sul fatto e ci prendesse a bastonate, che lo facesse davvero. Tutti meno mia sorella, che non stava mai a sentirlo e una volta mi sussurrò all’orecchio: «Turi lo sa che siamo noi».
«Non ci credo. Se lo sapesse, ci prenderebbe a legnate».
«No, non è vero. Turi è buono e quando raccoglie la frutta ne lascia sempre un po’ per noi».
Era convinta che Turi, forse per la gran barba nera che gli incorniciava il volto, fosse l’emiro. E lei era la favorita dell’emiro.
Aveva detto: “Ora sono Alma. Ma quando arriviamo al Castello divento la Favorita dell’Emiro. E se non la smettete, gli racconto tutto”.
E allora rimanemmo tutti zitti, per paura che lo facesse davvero.
Poi, dalla finestra, vedemmo Turi: stava scendendo con la moto per la strada sterrata che, dal bassopiano in cima alla collina, portava al paese. Aveva avuto ragione Alma a dire che ancora non potevamo andare. Aspettammo ancora cinque minuti e sentimmo il rumore del motore dall’altro lato della strada. 
«Possiamo andare!» disse mia sorella.

Quando Alma dava il via, ci incamminavamo in fila indiana attraverso il tratto di terreno fra le ultime case del paese e la collina, tutto coltivato ad alberi di nespole. Era bello camminare là in mezzo e ci toglievamo ogni volta le scarpe, per sentire i piedi affondare nella terra grassa e quasi nera. Dove finivano gli alberi, le rimettevamo e iniziavamo a salire per la scorciatoia che disegnava una serpentina sottile sul fianco della collina. Era una gran salita e se c’era caldo uno alla volta toglievamo le magliette e annodavamo in testa i fazzoletti, come avevamo imparato a fare guardando i contadini.
Terra secca ed erba ingiallita per tutta la salita. Ma, giunti in cima, era come vedere la terra promessa: una distesa verde di orti e di alberi da frutta, disseminata di piccole case coloniche. Più a destra, su una piccola altura, c’erano i ruderi del castello e sotto, a un duecento metri di distanza, la casa di Turi.
Ricordo perfettamente il muro di cinta, alto un paio di metri che a noi sembravano ancora di più. Agostino, il più robusto fra noi, si metteva alla base e incrociava le mani a staffa. Sulle sue spalle saliva Alfredo e anche lui metteva le mani in quel modo. Poi ci arrampicavamo io e mia sorella, che eravamo i più esili fra tutti. Scavalcavamo, saltavamo giù sul mucchio d’erba secca che c’era, ben affastellata, in quel punto sotto di noi e correvamo agli alberi. Allora pensavo che Turi fosse un gran distratto: ogni volta che raccoglieva i frutti, ne dimenticava sempre qualcuno ben maturo. Come pure si scordava di togliere l’erba secca da sotto il muro.
Uscire era ancora più facile. In un tratto il muro che aveva ceduto verso l’interno era stato rifatto, ma molte pietre erano rimaste ammonticchiate alla base. Così era più semplice arrampicarsi e, utilizzando i buchi che erano rimasti fra una pietra e l’altra, arrivavamo agevolmente in cima. Fischiavo, Agostino e Alfredo riformavano la scala, noi passavamo loro la frutta e scendevamo. Non la mangiavamo mai là, per non lasciare tracce e per la paura che tornasse Turi. Insieme al pane, sarebbe stata il nostro pranzo alla corte dell’emiro.   

Arrivammo, come sempre, in cima all’altura col fiatone. Come ogni volta, ci precipitammo di corsa verso i ruderi, per prendere ognuno il posto migliore in cui  sedersi. Alma no: era certa che nessuno avrebbe occupato quello che, da sempre, era il suo. Giunta là, ogni volta si trasformava. Assumeva un’espressione altera e, camminando lentamente, faceva il suo ingresso in quello che forse era stato un gran salone. Ne rimaneva qualche tratto del pavimento, con delle pietre squadrate abbandonate in mezzo, e una parete semi diroccata con incastonato l’arco ogivale di una finestra.
Passò in mezzo a noi – avevamo formato un semicerchio – e andò a sedersi con le spalle appoggiate alla parete, a destra dell’arco, su un grosso cubo di calcare che forse era stato la base di un pilastro. Stava per assegnare i compiti e pendevamo tutti dalle sue labbra: lei, la Favorita, parlava in nome dell’Emiro ed esprimeva i suoi voleri.

Sì, le cose stavano proprio in quel modo. Alma, la più piccola fra noi, aveva inventato il gioco e lo conduceva assegnando a ognuno sempre la stessa parte, che ogni volta ribadiva con una sorta di investitura sul campo. Quello era il rito che preludeva al gioco e mai ne avremmo fatto a meno. Ci chiamava uno a uno per nome.

«Agostino!».
«Sì!».
«Tu sei il Capitano delle Guardie… Alfredo!».
«Sì!».
«Tu sei il suo Luogotenente… Vittorio!».
«Sì!», ero io Vittorio.
«Tu sei il Capo delle Carovane… Salvatore!».
«Si!».
«Tu sei l’Intendente degli Edifici… Ciccio!».
«Sì!».
«Tu sei il Buffone di Corte».

A quel punto, ogni volta, era una risata collettiva, sia perché Ciccio era proprio buffo a vedersi – aveva le orecchie a sventola e riusciva a muoverle come fanno i cavalli quando una mosca dà loro fastidio – sia perché sapevamo che poi ci avrebbe raccontato le barzellette.

«Carmelo, Giorgio, Marcello! Voi siete i Soldati… Anna, Mariella, Pina! Voi siete le Danzatrici… Sebastiano!».
«Sì!».
«Tu sei il Gran Visir».
Era arrivato il gran momento e lei faceva una pausa, per sottolineare l’importanza di quello che avrebbe detto; poi proclamava: «Ed io sono la Favorita dell’Emiro!».

Salvatore, l’Intendente degli Edifici, si dava delle arie. Il suo compito era quello di tenere in efficienza il castello e lui sognava addirittura di ricostruirlo. Aveva cominciato a portare su delle piccole tavole che rubava a un suo zio  falegname e con cui avrebbe voluto fare una tettoia, per poterci riparare quando fosse piovuto.
Da parte sua Sebastiano, ogni volta dopo la nomina, gongolava e ci teneva a precisare che lui parlava per bocca dell’Emiro, senza rendersi conto che avrebbe dovuto dire esattamente il contrario. Non si arrischiava, però, a dire mai una sola sillaba senza aver prima guardato mia sorella e averne avuto un cenno di assenso. Eravamo tutti consapevoli che lei lo teneva in pugno, per chissà quali segreti di cui era a conoscenza.
A quel punto del gioco Alma dava un’occhiata a Sebastiano; lui assentiva e proclamava a gran voce che potevamo dare inizio al pasto. Tiravamo fuori dalle tasche i frutti appena raccolti, le fette di pane che c’eravamo portati dietro e facevamo girare le due borracce dell’acqua. Pane, acqua e frutta. Soltanto questo, ma per noi erano cibi e bevande squisiti: arrosti profumati, timballi di pasta, pesci arrostiti, verdure, dolci, vino buono. Tutto quello che si trovava sulle tavole per Natale o per Pasqua.
Dopo aver mangiato, facevamo silenzio perché quello era il momento in cui Alma avrebbe nominato il nemico.

«Pietro, Pippo! Voi siete i Traditori».

Nella nostra fantasia, dalla vicina città che mai avevamo visto se non da lontano, arrivavano dal mare i pirati pronti a saccheggiare il nostro regno. E noi, che abitavamo nel castello fatato di Tura, dovevamo difenderci e salvaguardare i nostri sudditi. E, come in ogni storia che si rispetti, c’erano fra noi dei traditori pronti a fare entrare il nemico con qualche sotterfugio. Poi il gioco cominciava, ogni volta lo stesso nelle linee generali ma sempre diverso nei particolari.
Anni dopo mi resi conto che la nostra non era altro che una recita a soggetto, su un canovaccio ben collaudato. E capii anche perché Alma investiva Pietro e Pippo delle loro parti solo dopo che avevamo mangiato: se l’avesse fatto prima, avremmo già saputo che erano dei traditori. Avremmo mai potuto permettere loro di consumare il pasto insieme a noi?
Mi resi anche conto che il nostro gioco che, come tutti quelli che fanno i bambini, ci prendeva completamente, nascondeva al suo interno qualcosa di quella che poi sarebbe stata la realtà. Come quella volta che…

La lite covava da tempo e scoppiò furibonda un giorno in cui il tempo non prometteva nulla di buono. Dal mare arrivavano nuvoloni neri e gonfi che si dirigevano veloci verso l’interno, si preparava un temporale estivo e i nostri genitori ci avevano fatto promettere che saremmo rimasti in paese.
Ci ritrovammo alla solita ora nel cortile di casa nostra ed io dissi che non potevamo andare, per via della promessa. Pietro e Pippo – i due pirati, come ormai li chiamavamo anche al di fuori del gioco – non furono d’accordo: «Tu hai promesso. Noi no!».
Alma tentò di zittirli: «Ho promesso anch’io e non possiamo andare».
Non funzionò quella volta: «E chi se ne frega! Noi andiamo lo stesso».
E allora andammo tutti. Non potevamo certo permettere che loro due, i pirati, si ritrovassero da soli nel nostro castello.
Quella mattina Turi era in casa – vedemmo le finestre aperte – e non ci fu possibile raccogliere la solita frutta. Quando arrivammo al castello, il cielo era ormai completamente coperto e il vento era diventato pungente.
Mangiammo di malumore le fette di pane e poi Alma disse: «Pietro, Pippo! Voi siete i Traditori».
Non ci fu il solito «Sì!» di risposta. Pietro la guardò con aria di sfida, si girò verso Pippo e gli fece un cenno con la testa. E Pippo, che era alto e robusto quasi quanto Agostino, si alzò in piedi: «No, da oggi facciamo i turni! Oppure facciamo la conta… Anche le donne».
«Le donne non c’entrano niente. Noi siamo le Favorite» rispose Alma.
«No! Voi siete come tutti e pure voi fate la conta. Anche tu la fai».
Quella era un’insubordinazione in piena regola e ci mettemmo a gridare tutti contemporaneamente contro Pippo e Pietro.
«Silenzio!» disse Alma gelida e fece cenno a Sebastiano di avvicinarsi. Gli parlò all’orecchio e poi lui proclamò a gran voce: «Io sono il Gran Visir e ordino al Comandante delle Guardie di allontanare i Traditori. Non potete più giocare con noi e chiunque vi parla non lo potrà più fare nemmeno».
Agostino, il Capitano delle Guardie, si alzò in piedi. Voleva sembrare minaccioso, ma si vedeva chiaramente che non aveva nessuna intenzione di fare a botte. Gli ordini, però, erano ordini.
Fu a quel punto che scoppiò provvidenziale il temporale. Corremmo tutti a metterci a ridosso del muro, nel tentativo di bagnarci meno possibile. Pietro e Pippo si guardarono in faccia e poi se ne andarono via, correndo sotto la pioggia torrenziale e gridando che ce l’avrebbero fatta pagare. A tutti, e ad Alma per prima.

Si fecero un loro gruppetto, reclutando alcuni dei ragazzi del paese che avevamo sempre escluso dai nostri giochi. Da allora, ogni volta che le due bande si vedevano a distanza, volavano pietre e loro tentavano sempre di espugnare il nostro castello.
A ripensarci mi sembra strano, ma non accadde mai che la mattina li trovassimo padroni del campo. Chissà perché, arrivavano sempre dopo di noi e davano l’assalto. Chissà perché… Forse, pur essendo i traditori, continuavano a rispettare le regole del gioco inventato da Alma. A quei tempi, almeno.

venerdì 18 aprile 2014

5 Aprile 2014 Presentazione de Il Castello di Tura

5 Aprile 2014
Presentazione de Il Castello di Tura: viaggio nell'animo e ritorno
Associazione "Amici della Musica Aci e Galatea", Ficarazzi (CT)

Magnifica serata, grazie alla professionalità e al calore umano del carissimo Alfio Patti, che ha curato la presentazione, e agli amici della "Associazione Aci e Galatea".









mercoledì 16 aprile 2014

2^ EDIZIONE DE "DALLE CATTEDRALI AL TEMPIO"


E' in Libreria la 2^ edizione de "DALLE CATTEDRALI AL TEMPIO: su alcuni simboli dei Costruttori". Tipheret Editrice, 2014

lunedì 17 febbraio 2014

15-2-2014 PRESENTAZIONE DE "IL CASTELLO DI TURA" - CAMPUS DON BOSCO, TREMESTIERI ETNEO

Una bellissima serata, grazie alla professionalita' e al calore umano dei presentatori (Alfio Patti e Matteo Licari, amici da tanto di quel tempo che ho dimenticato da quanto) e a tutti coloro (amici vecchi e nuovi) che con la loro presenza l'hanno resa cosi' interessante.


giovedì 3 ottobre 2013











Le ministorie

Fra qualche giorno inizierò ad inserire nel blog, sotto forma di post, dei racconti di non più di mezza pagina ciascuno.
Volete cimentarvi anche voi? Se sì, inviate i vostri contributi come commenti; ne potrebbe nascere una raccolta da pubblicare in rete.

lunedì 30 settembre 2013

Alfio Patti presenta All'ombra della Loggia e canta 'A Cerca

Nel Luglio del 2011 il mio carissimo amico Alfio Patti, profondo conoscitore e cultore della cultura siciliana e noto come l’Aedo dell’Etna – mentre a me piace definirlo  cuntastorie e cantastorie – mi ha fatto un regalo: ha magistralmente presentato un mio libro (All’ombra della Loggia – Tipheret Editrice) alla Libreria Tertulia di Catania.
In quel libro avevo inserito anche due poesie in dialetto e una di esse (‘A Cerca, cioè La Ricerca) Alfio la mise in musica e, accompagnandosi con la chitarra, la propose al pubblico. Un regalo dentro il regalo.
Vi propongo il video della perfomance di Alfio. Purtroppo fu ripreso con un cellulare e non ne esiste altra versione, ma ciò non toglie che vale la pena di vederlo ed ascoltarlo.


Quelli che seguono sono il testo della poesia in dialetto e la sua traduzione in italiano che, come tutte le traduzioni in altra lingua, perde però parte del senso originale.

‘A Cerca

I.
Cuntanu ch’esisti un calici
di granni consistenza,
che ch’è chinu di miraculi,
ch’è fonte d’esistenza…
           
L’aviti mai sintutu ‘u cori ‘mpettu,
ca v’accumincia a fa’ com’un caprettu?
Vi sata a destra e a manca,
s’ammuccia e poi s’avanza.
           
Po’ essiri l’arduri o la tinsioni,
po’ essiri lu scantu o l’impressioni;
ma ‘ntu me’ casu è ancora n’atru pisu,
ca mi fa stari ‘nfernu e ‘mpararisu.
           
‘Nta lu me casu è amuri,
e abbrucia a tutti l’uri…
           
II.
Cercu e nun trovu un calici
di granni consistenza,
che ch’è chinu di miraculi,
ch’è fonte d’esistenza…
                       
Mi sentu propriu comu un gran pascià,
chinu ‘i tesori, onuri e di beltà.
Ma ‘u tempu passa e nun c’è a cu’ dari,
e restu cà, sulu, ad aspittari.
           
Vulissi a cu diri: «Amuri miu,
nun po’ sapiri quantu t’addisiu».
Ma nun c’è nugga a cui livari ’i peni;
‘u tempu passa e la tristizza veni.
           
Mi sentu comu ‘a terra ch’è assitata,
impoveruta, sicca e poi spaccata;
c’anela sulu all’acqua ca nun veni,
e ‘nto frattempo passa ancora i peni.
           
Vulissi  cu’ dicissi: «Amuri miu,
nun po’ sapiri quantu t’addisiu».
Ma nun c’è nugga ca mi leva i’ peni;
‘u tempu passa e la tristizza veni.
           
III.
Scavu e ricercu un calici
di granni consistenza,           
che ch’è chinu di miraculi,
ch’è fonte d’esistenza…
           
Ma si supra a ‘st’affari fazzu ‘u puntu,
m’accorgu cu ‘nn’è tuttu quantu cuntu;
nunn’è sulu l’amuri ca pinsati,
è n’atra cosa ancora c’un dà paci.

In funnu io  belli stori n’ha già avutu;
‘u fattu è n’autru, ormai ma pirsuarutu:
cercu e nun trovu, comu nun saprei,
l’Amuri granni, l’Amuri cu’ li dei.

IV.

Dintra di nui c’è un calici…


I.
Forse voi non lo sapete, ma si racconta che esiste un calice, enormemente prezioso, che è capace di fare miracoli. Si dice che sia la fonte stessa dell’esistenza.

Ve lo voglio dire come mi sento: mi balla il cuore in petto, come se fosse un capretto che corre e salta qua e là. 
Sì, direte voi, succede. Tensione o emozione, succede a tutti. Ma così, in questo modo,come capita a me? Un attimo mi sento al settimo cielo e subito dopo mi ritrovo all’inferno. No, vi sbagliate: non è né tensione né emozione; è tutta un’altra cosa. Di amore si tratta, e mi brucia dentro giorno e notte; non mi lascia un attimo in pace.

II.
Sapete, io ho cominciato a cercarlo quel calice prezioso, che è capace di fare miracoli; che, si dice, sia la fonte stessa dell’esistenza.

Lo volete sapere come mi sento? Come se fossi un… un pascià. Ricchissimo, potente, bello. Sì, mi sento così; ma non sono felice. Se debbo dirvi la verità, ho un vuoto dentro: mi manca qualcosa. Vorrei trovare la donna giusta, quella cui donare quello che ho, per farla felice. Ma, giorno dopo giorno, mi ritrovo sempre più solo.
Ah, se esistesse, se fosse qua, se potessi dirle: «Tu non lo sai quanto ti desidero». E, invece, mentre il tempo passa inutilmente, la tristezza mi riempie il cuore.
Come mi sento? Come la terra, quando non piove da così tanto tempo che tutto è secco e inaridito. E la calura spacca le zolle; e lei, la terra che ci dà la vita, anela solo a quell’acqua che non arriva. Così deve soffrire lei, come soffro io.
Ah, se esistesse, se fosse qua chi mi dicesse: «Tu non lo sai quanto ti desidero». E, invece, no. Il tempo passa scorre e, nell’attesa, la tristezza mi si riversa dentro.

III.
Continuo a cercarlo quel calice, come un forsennato. Perché – io ora lo so – è prezioso, è capace di fare miracoli. È la fonte stessa dell’esistenza.

Ci ho riflettuto sopra e un pensiero mi ha invaso: non è l’amore, come tutti lo intendete, che sto cercando adesso. No, credetemi: non è questa la mancanza che mi tortura.
Quello non mi basterebbe. Lo so, perché ne ho avute di belle storie; e tante anche. Potrei esserne sazio e soddisfatto. In realtà quello che cerco, che non trovo, che non mi dà pace e tutta un’altra cosa; anche se si chiama allo stesso modo. È difficile da credere, ma si tratta dell’Amore con la A maiuscola, quello con gli dei.

IV.
Dentro ognuno di noi c’è un calice…

Mi sembra anche il caso di riportare le parole con cui Alfio Patti commentò l’evento sul suo blog (http://alfiopatti.wordpress.com/):

“All’ombra della Loggia” è un libro storico e poetico insieme. L’esposizione è semplice, senza appesantimenti letterari, immediata, diretta; scritto da chi vuole rivolgersi agli altri pensando agli altri; cioè usando un mezzo (la scrittura) con la stessa maestria dello scalpellino di pietra. Dosa i colpi del maglietto, inclina bene lo scalpello, e ci presenta una piccola scultura.
Ninni Barresi, si inventa un paese, Roccarasa, in Sicilia, e una Rispettabile Loggia all’Oriente del paese. La Loggia massonica è operativa (molto rara oggigiorno, sono quasi tutte speculative) La Rispettabile Loggia Fontechiara.
L’aspetto fiabesco del libro è rappresentato da un piccolo Stato, come nelle fiabe, dove regna Libertà, Uguaglianza e Fratellanza. Una fiaba che si rifà all’Architetto Universale e che vede riuniti, in uno Stato libero (in seno ad una Sicilia feudale), una regione dell’anima oltre che geografica, tanti fratelli liberi e di buoni costumi.
Ognuno diventa, così come vuolela Libera Muratoria, costruttore di uomini per diventare costruttore di pace. E’ chiaro che prima bisogna costruire l’uomo perché la Pace si realizzi, ma non c’è Pace senza giustizia e diritti umani garantiti.
La mie chiavi di volta – ha spiegato Ninni Barresi – sono tre: una in mente, una nel cuore ed una nella “bocca dell’anima”. Se tutte e tre le chiavi non fossero in sintonia tutta l’impalcatura della costruzione architettonica cederebbe. Si tratta della continua ricerca del Sé!”.