LE MINISTORIE










Assettati

Personaggi: 
  Geronimo (è il suo nickname, non il nome)
  Yorky, il cane di Geronimo
  io


     Il fatto: è vero, anzi verissimo; di mio non ci ho aggiunto assolutamente nulla.  

Geronimo lo conobbi una quindicina di anni fa. Ci presentò un amico comune, che insieme con lui era cresciuto da quando erano bambini fino a pochi anni dopo il diploma. Poi Geronimo se ne andò in Svizzera in cerca di lavoro, lo trovò e ci rimase; e trovò anche una moglie, anche lei trasferitasi là. A proposito, non era la Svizzera italiana o quella francese; era quella tedesca. E fra questo e la moglie austriaca, Geronimo divenne mezzo tedesco. Però non si dimenticò mai della Sicilia e della sua città e, giunto alle soglie della pensione, decise di tornarci. Anche perché con la pensione svizzera qua avrebbe potuto vivere agiatamente, mentre là non dico che avrebbe tirato la cinghia ma se la sarebbe passata meno bene.
Insomma, Geronimo venne in avanscoperta, acquistò un villino alle porte di Nicolosi e tornò in Svizzera per sbrigare le ultime incombenze. Tre mesi dopo lui, la moglie e il cane si trasferirono dalle nostre parti.
Fra Geronimo e me, che avevamo molti lati del carattere in comune oltre a diversi interessi, si venne a creare un legame parecchio forte. E ci vedevamo almeno una volta alla settimana per delle riunioni nella casa di campagna di un amico che accoglieva noi ed altri amici con un piatto di pasta e ceci, due nodi di salsiccia e poi ci chiedeva di sviscerare qualche argomento che lo appassionava. Ma di questo ve ne parlo un’altra volta. Ora vi debbo dire di Yorky. Il cane di Geronimo, vi dicevo, che s’era portato dietro dalla Svizzera.
Una meraviglia di pastore tedesco di quattro anni, perfettamente addestrato in una scuola svizzero-tedesca. Se Geronimo gli diceva «Sitzen», quello – anzi quella, perché era femmina – si sedeva qualunque cosa stesse facendo e aspettava con pazienza che il padrone le consentisse di alzarsi. Se Geronimo la portava fuori per fare i suoi bisogni – e la lasciava libera perché tanto non si sarebbe mai allontanata senza un ordine preciso – e Yorky vedeva un gatto, non partiva in quarta come tutti i cani di questo mondo. Accennava soltanto a scattare, senza però farlo. Geronimo gli diceva «Nein» e quella rimaneva ferma guardando il gatto con un desiderio struggente, che esprimeva uggiolando pian piano.
Ogni tanto andavo a trovare Geronimo a casa e se qualcuno, incontrandomi, mi chiedeva dove fossi diretto, rispondevo: «Vado a trovare i miei amici a due e quattro zampe». Ed era vero, perché con Yorky – e qua vengo al fatto – eravamo grandi amici.
Geronimo mi sfotteva: «Amore a prima vista, vero?». «Come il tuo» rispondevo, perché lui e la moglie trattavano quel cane meglio che se fosse stato un figlio.
Quando arrivavo io, Yorky mi si precipitava incontro: saltava, uggiolava, muoveva la coda a mulinello e mi portava – e dico bene perché se non ci andavo subito, era capace di acchiapparmi delicatamente una mano e di trascinarmi – sul prato per giocare. E là, fra una carezza e una zampata, ci dimostravamo tutta la nostra amicizia. Dopo un po’ le dicevo: «Ora basta giocare, Yorky. Debbo fare festa anche al tuo padrone». E mi andavo a sedere per chiacchierare col mio amico.
Solo che, in quelle occasioni, Yorky si lasciava prendere dalla frenesia della festa – perché anche per lei lo era – e, anziché accucciarsi accanto al padrone o accanto a me, continuava a girarmi attorno dandomi ogni tanto una leccata sulla mano.
In quel giorno di cui vi sto parlando, Geronimo pensò che Yorky mi stesse infastidendo e allora le disse a bassa voce: «Yorky, sitzen». Lei, contravvenendo a tutte le regole, non gli diede per nulla retta.
«Yorky, sitzen!», e stavolta il tono di voce era leggermente più alto. E dato che a Yorky non passava neanche per l’anticamera del suo cervello di cane di dargli retta, fece l’atto di alzarsi. Gli feci segno di aspettare e mi alzai io. Mi avvicinai al cane e gli sussurrai all’orecchio: «Assettati».
Per incredibile che fosse, Yorky si sedette all’istante. e Geronimo, che ancora non capiva, mi chiese: «Che gli hai detto?».
«Assettati» gli risposi.
«Ma quella capisce solo il tedesco!».
«Vero è! Ma mi legge anche in testa». E sono davvero convinto che fosse così.





 Il complice
Cocky e Cockie sono i due miei nipoti, di quasi cinque anni. Sono gemelli, ma completamente diversi fra loro, sia nel fisico che nel carattere. Il primo è biondo, di carnagione chiara, normolineo; l’altro è scuro, alto e magro come una stecca. Cocky è irruento, non riesce a stare un attimo fermo, sforna monellerie a getto continuo. Cockie è apparentemente più tranquillo; ma solo all’apparenza, perché lui le monellerie se le studia prima di farle, ci ragiona sopra, se le prepara. I nomi con cui ve li presento se li sono scelti loro, da quando cominciarono a balbettare, e con quelli si rivolgono ancora l’uno all’altro quando sono immersi nella dimensione del gioco.
Una mattina, era ancora estate ma minacciava di piovere e non si poteva andare a mare, mia figlia ci chiese di portarli un po’ in giro per non tenerli chiusi in casa. Andammo in un centro commerciale, perché là c’era una mostra di dinosauri ed eravamo sicuri che li avrebbe interessati. E fu proprio così, perché quei dinosauri erano proprio fatti bene: muovevano la testa, agitavano la coda, i carnivori mettevano in mostra le file di denti aguzzi, e… (qual è il verso di un bestione di quel genere?) … facevano sentire una specie di brontolio minaccioso.
I bambini rimasero affascinati e anche un po’ intimiditi. Mia moglie teneva per mano Cocky ed io Cockie, che mi chiese preoccupato: «Ma sono veri?». E gli occhi gli luccicavano, preso com’era dalla curiosità e da una certa dose di timore.
«Tu che dici?» gli chiesi.
«Io non lo so» e mi strinse forte la mano.
«Stai tranquillo, sono finti».
Corse dalla nonna per dirle che erano finti e che non si doveva spaventare. E nel frattempo Cocky si precipitò da me e tutte e due girammo attorno al finto bestione, che per lui era vero però perché non aveva sentito il discorso fra me e il fratello.
A quel punto gli dissi: «Guarda che faccio!». E, mentre mi passava davanti, acchiappai con una mano la coda che sventolava a destra e a manca e la strinsi poi anche con l’altra mano. E dovetti ripetere il gioco più volte perché tutti e due erano rimasti affascinati dalla cosa.
Una settimana dopo i bambini vollero tornare là col padre e la madre e, arrivati davanti al tirannosauro rex, Cocky disse alla madre: 
«Mamma, mamma! L’altra volta il nonno, con le sue folli idee, gli ha acchiappato la coda! Così e poi così!». E nel frattempo mimava il movimento delle mie mani quella volta, mentre il fratello sorrideva sornione.
Il nonno con le sue folli idee… aveva fatto una monelleria che a loro sarebbe piaciuta poter fare.
Sapete una cosa? Tempo prima, giocando con loro, mi si erano rivolti chiamandomi Cockie o forse Cocky.
Il nonno, il complice, con le sue folli idee…







La Rossa
Lasciò la macchina al parcheggio scambiatore e prese l’autobus per andare in centro. C’era ancora qualche posto a sedere ma preferì, come sempre faceva, rimanere all’impiedi. Tanto, anche se si fosse seduto, non appena il bus si fosse riempito avrebbe ceduto il posto a qualche bella signora.
Eh, sì! Arturo aveva un debole per le belle signore; e anche loro l’avevano per lui. A sessantadue anni era in perfetta forma e, fino a quel momento, non se n’era lasciata scappare una. “Ogni lasciata è persa”, diceva sempre.
La ragazza era un fiore di ragazza. La classica rossa con la carnagione chiara e gli occhi verdi; snella, ma con le forme giuste al posto giusto, e un sorriso malizioso che le affiorava ogni tanto sulla bocca tornita senza che lei se ne rendesse conto. Era sovrappensiero quella mattina e guardava nel vuoto di fronte a sé, cercando di immaginare che domande le avrebbero fatto. Stava andando a sostenere un esame all’università e, come sempre in quei casi, si lasciava prendere dall’ansia. Arturo le era di fianco, a un metro di distanza, e cercava di osservarla senza farsi notare troppo. Gran bella ragazza, pensava. E cercava di immaginarsela – e non era difficile perché fantasia, almeno in quel campo, ne aveva a iosa – in piedi e con meno vestiti addosso. E quel sorriso, che le si vedeva agli angoli della bocca, gli dava una stretta allo stomaco. Poi si accorse che quella lo guardava fisso.
La conosco? si chiese. No, se l’avessi già incontrata, me la ricorderei di certo. Come si fa a dimenticare una così? E allora? E allora vuoi vedere che…
E al pensiero del “che…” si sentì rimescolare dentro e si girò a guardarla direttamente.
La ragazza se ne accorse e smise di pensare all’esame.E questo che vuole? si domandò. Vuoi vedere che ho fatto colpo?... Ma non si vergogna alla sua età, ‘sto vecchio che è convinto che una di vent’anni gli cade ai piedi non appena la guarda? Lo aggiusto io ora! Ora gli faccio fare una figura di merda che se la ricorderà per sempre... Anche se è un tipo interessante; ai suoi tempi questo ne deve aver combinati di tutti i colori. È pure simpatico, ma lo metto a posto lo stesso.
Si alzò leggera come una piuma, sapendo bene l’effetto che questo faceva sugli uomini, e gli rivolse la parola a voce ben alta e scandendo le parole: «Signore, mi scusi. Io… io vorrei pregarla di sedersi al mio posto. Io sono giovane» e calcò sul giovane «e lei sembra stanco. Mi scusi, ma capisco che alla sua età…» e alzò il tono della voce sull’ultima parola.
Arturo, per la prima volta in vita sua, rimase senza parole di fronte a una bella donna. Le fece segno di no, si girò dall’altro lato e si ritrovò a pensare che gli anni che aveva addosso gli si vedevano tutti. E forse anche qualcuno in più. Doveva stare attento a non farsi scoprire ad ammirare quelle giovani. Peccato, però.  Era un vero peccato…





Van Gogh
Paolo, il fratello maggiore di Peppe, aveva un problema; anzi due: doveva traslocare e non si poteva permettere di spendere soldi. E allora si rivolse al fratello:
«Non è che tu e i tuoi amici mi dareste una mano?».
«Che dovremmo fare?».
«Il grosso l’ho già portato io a casa nuova, ma c’è ancora qualche carabattola da trasferire. Una di queste sere…».
«Si può fare pure stasera, ci dovevamo vedere dopo cena. Ma tu che ci dai in cambio?».
I due fratelli raggiunsero l’accordo e quella sera Peppe, Vicè, Ciccio ed io faticammo per quasi quattro ore scendendo i mobili – “carabattole” le aveva chiamate Paolo – giù per le scale dal secondo piano, caricandole poi sulla macchina del fratello di Peppe e trasferendole al nuovo appartamento al terzo piano.
Ci levammo la salute, anche se a vent’anni si può fare questo e altro. Alla fine restammo padroni della vecchia casa di Paolo e della fila di bottiglie ch’erano prima nel mobile bar. Ci aspettava una sbronza coi fiocchi e cominciammo a darci sotto. L’unica bottiglia piena per intero era di brandy; e la svuotammo coscienziosamente perché ci serviva il vuoto, che poi riempimmo con un cocktail degli altri liquori. La base era cherry e così il miscuglio assunse il colore pastoso del vino.
Uscimmo a passeggiare con la bottiglia sottobraccio e andammo al Belvedere dove, all’aria fresca di una serata di fine ottobre, ce la scolammo quasi per intero. A quel punto eravamo fradici. E fu allora che io alzai gli occhi a guardare il cielo – era quasi l’una di notte – che era terso e senza una nuvola. E rimasi folgorato e mi sdraiai a terra per vederlo meglio. Due o tre minuti mi dissero che ero rimasto con la faccia all’aria, ma per me fu un’eternità in cui fui felice come una pasqua. Volete saper cosa vidi? Facile a dirsi ma difficile a immaginare. Guardate questo quadro di Van Gogh, Notte stellata sul Rodano, mentre là, sotto il Belvedere, c’era invece il mare.




No, non vedevo una cosa così; io vedevo la fine del processo, quando tutto il blu era diventato color delle stelle e le stelle erano diventate blu. Il negativo del cielo notturno.
Rimasi estasiato, quasi in trance. Ancora oggi me lo ricordo nitidamente e non ho mai capito come una cosa così bella e strabiliante mi fosse potuta accadere. Gli altri non videro niente.

Erano le tre di notte, eravamo all’ultimo stadio della sbronza e decidemmo di rientrare alle rispettive case. Io avevo in mano la bottiglia con ancora tre dita di quel miscuglio infernale, ma nessuno aveva il coraggio di bere ancora. Passando dalla piazza vedemmo la luce accesa nel bugigattolo di don Nardo, il panellaro. Ci dirigemmo là.
«Don Nardo, chi ci fa a ‘stura aperto?» gli chiedemmo.
«Priparu a pasta pi panelle pi tutta a simana. Nunn’avevu sonno e vinni a travagghiari».
Ci guardò in faccia uno per uno e chiese:
«Com’era u vinu, picciotti?».
«Bonu era: nettari» gli risposi.
«U voli ‘stu canticchia c’arristò?».
«Sì, è megghiu ca mu vivu io».
Allungò la mano, prese la bottiglia e bevve a garganella pensando che fosse vino. Per poco non rimise l’anima. Bestemmiò, ce ne disse di tutti i colori, poi ci ripensò e la svuotò fino all’ultima goccia. «Dove trenta, trentuno», s’era messo a parlare in perfetto italiano, cosa che mai gli avevo sentito fare. «Vero nettare era…E ora, se ce la fate, tornatevene alle vostre case e lasciatemi lavorare».L’indomani non andammo a fare colazione, come ogni giorno facevamo, da don Nardo. Chissà che aveva combinato preparando le panelle. 




Il sergente Honey-life
Sudan, Giugno 1989

  Mancava un’ora al tramonto e l’ampio cerchio di terra battuta su cui sorgeva il villaggio era in piena luce. Venti capanne di tronchi leggeri e col tetto di paglia, disposte in cerchio, con al centro il recinto degli animali dove c’erano solamente due vacche; magre al punto da mostrare tutte le costole.
Erano in dodici, acquattati fra l’erba alta della savana, ormai ingiallita, che circondava il villaggio. Una brezza leggera muoveva gli steli secchi e il rumore dei loro movimenti non poteva essere distinto. Osservavano la scena da un’ora e avevano visto solo vecchi, donne e bambini. Gli uomini validi dovevano aver portato il resto del bestiame ai pascoli sulle montagne, parecchio distanti verso nord.

Gli otto terroristi – loro si definivano guerriglieri del Fronte di Liberazione – cui davano la caccia da una settimana, seguendoli a distanza e colmando man mano il vantaggio che avevano, erano là ormai in trappola. Li avevano raggiunti finalmente ed ora la fortuna era dalla parte dei cacciatori. Gli uomini in fuga si erano fermati, stremati come loro che li inseguivano, per passare la notte nel villaggio. Avevano macellato una capra, si erano ingozzati di cibo e avevano lasciato a guardia due sentinelle che stentavano a tenere gli occhi aperti. Gli altri sei erano dentro le capanne e sicuramente dormivano. Anche le donne, i vecchi e i bambini del minuscolo villaggio erano nascosti dentro le capanne. A parte le due vacche e le sentinelle insonnolite, nulla si muoveva.

Come sempre in quei casi – non era la prima volta che effettuavano azioni del genere – pianificarono quello che c’era da fare nei minimi dettagli. A gesti, senza scambiare una sola parola. Avrebbero posizionato le due mitragliatrici sul rialzo che fronteggiava il villaggio, a circa cinquanta metri di distanza. Una a destra, a ore due, l’altra a sinistra, a ore nove. Gli altri dieci uomini avrebbero circondato lo spiazzo, intervallati a distanze regolari. Poche brevi comunicazioni con i walkie–talkie. La prima – uno, due, tre – per dare l’avvio al  torrente di fuoco che sarebbe durato un paio di minuti: prima sulle due sentinelle, poi sulle capanne – dieci secondi per ognuna – e dopo ancora su tutto lo spazio. Allo stop avrebbero cessato il fuoco. Due minuti di pausa. Se qualcuno fosse uscito dalle capanne, l’avrebbero abbattuto. Se non fosse successo niente, al vai sarebbero avanzati velocemente capanna per capanna. Due capanne per ogni uomo. Bomba a mano all’interno della prima e via sulla seconda. Dopo sarebbero tornati indietro: ogni uomo si sarebbe affacciato sulla soglia di una capanna, sparando a raffica, per poi passare a quella successiva. Tutto questo mentre i due alle mitragliatrici sarebbero rimasti sulle loro posizioni, con l’intero villaggio sotto tiro. In meno di cinque-sei minuti sarebbe finito tutto. Una nottata di riposo e, all’alba, sarebbero tornati indietro. Li aspettava un’altra settimana di marcia a tappe forzate, con le sole razioni di emergenza come viveri, col pesante equipaggiamento sulle spalle, la stanchezza di giorni e giorni di cammino e il desiderio di fiumi di acqua, di cibo abbondante e di un  letto.
Un altro modo per portare a termine la missione ci sarebbe stato: avrebbero potuto richiedere via radio l’intervento degli aerei. Due bombe al napalm e non sarebbe rimasto niente, né dei terroristi né del villaggio. Ma si sarebbe dovuta aspettare l’alba, col rischio che quegli assassini riprendessero la marcia col buio. No, meglio agire subito. Loro erano delle unità scelte, perfette macchine da guerra addestrate ad agire senza pensare e a obbedire agli istinti omicidi posti al servizio di una giusta causa. E anche quando il condizionamento avesse loro permesso di riflettere, non ci sarebbe stato nessun dubbio: sarebbe valsa la pena di sacrificare un pugno di indigeni per salvare da quei criminali chissà quante vite – centinaia, forse migliaia, in paesi civili – che avevano ben altro valore.
Sempre a segni John Reins, il tenente che comandava il gruppo, chiese se c’erano domande. Nessuna. Diede il via all’operazione e si andò a posizionare a ore due con la mitragliatrice. Aveva tutto il villaggio sotto tiro. Compito suo era anche quello di dare i pochi ordini via radio. Sentì nell’auricolare: in posizione; era il secondo mitragliere. Poi, uno ad uno, anche gli altri diedero lo sta bene con un secco okay seguito dal proprio numero. Il tenente attese ancora due minuti, poi cominciò a contare nel microfono: «Uno… due… tre».Al tre cominciò a sparare, contemporaneamente all’altro mitragliere. Il secco ta-ta-ta-ta delle armi riempì l’aria. Le due sentinelle caddero senza avere avuto neanche il tempo di accorgersi di cosa stesse succedendo. Concentrò il tiro per dieci secondi su ogni capanna. Lo stesso faceva l’altro. Rami secchi di alberi, pezzi di tronchi, paglia e fango volavano in tutte le direzioni. Infine inondarono tutto lo spiazzo di proiettili. Alcune sagome si erano catapultate fuori dalle capanne ed erano state falciate in mezzo agli sbuffi di terra che si sollevavano dappertutto. Una aveva sparato all’impazzata, alla cieca, urlando. Di sicuro avevano già eliminato tre dei terroristi.
«Stop!».
Il fuoco cessò di colpo. Mentre – lentissimamente –  trascorrevano i due minuti prestabiliti, controllò lo spazio antistante scandagliando il terreno metro per metro. Due delle capanne non esistevano più, qualcuna era semidistrutta, le altre erano sventrate. Cinque corpi a terra in pose scomposte. I dieci uomini, in piedi e immobili ai loro posti, circondavano il villaggio controllando ognuno il proprio settore. Le due vacche erano a terra in un lago di sangue.
«Vai!».
Gli uomini scattarono. Ognuno di loro, piegato in due col mitra in una mano, staccava la sicura con i denti, lanciava la bomba dentro la capanna e correva a quella successiva. Poi tornarono indietro sempre velocemente. Ciascuno si affacciò sulla soglia di quello che era rimasto di una delle due costruzioni assegnategli, diede tre-quattro sventagliate e passò avanti all’altra capanna.
Il sergente entrò nella seconda capanna e sparò più volte a raffica con un movimento circolare. Staccò il dito dal grilletto: l’arma s’era inceppata. A terra, in mezzo al sangue, c’era il corpo di un bambino. Poteva avere sì e no dieci anni. Poi, nella semioscurità, vide il biancore di un paio di occhi. Mentre tirava fuori la pistola, la donna si avventò, mostrando i denti di un bianco quasi innaturale sul volto più scuro della pece, le mani tese ad artiglio. Il sergente sparò tre colpi e la donna si accasciò. Si guardò attorno – l’arma pronta – e, fra una massa di stracci, vide un altro paio d’occhi spalancati, ma diversi da quelli della donna. Si avvicinò. Era un bambino di pochi mesi, sano e salvo, completamente ammutolito dal terrore per il frastuono. Per un attimo pensò di portarlo con sé sulla via del ritorno. No, non sarebbe mai sopravvissuto alla marcia a tappe forzate senza l’unico cibo adatto: il latte. Se l’avessero lasciato al villaggio, sarebbe morto di fame o di sete. Non c’era via di uscita. Il sergente sparò mirando fra gli occhi.
Dal basso ventre s’irradiò una fitta acutissima di dolore. Si tastò e si guardò: nessuna ferita. Il dolore si era fatto lancinante, acutissimo, e avanzava velocemente verso l’alto con un bruciore insostenibile. Ardeva come fuoco, torceva i nervi e toglieva il respiro. A un tratto non vide più niente, se non gli occhi nel buio. Quelli del bambino, ancora aperti, pieni di vita, anche se sapeva senza possibilità di dubbio che l’aveva ucciso.
Il sergente Mary Honey-Life, delle unità scelte dell’esercito, pluridecorata al valore, che durante quegli anni aveva visto tutto l’orrore di quella guerra non dichiarata e ancora di più, mise la canna della pistola in bocca e premette il grilletto.
 [Tratto da Racconti allo specchio e altre storie – Amazon, 2013]









E' arrivato il primo contributo alle ministorie.




Da leggere e gustare!
Grazie, Zucchero

L’ora di pranzo
Il ricordo dello sguardo di lei posato sul loro bambino così piccolo, gli sfuggiva in fretta così come la campagna dal finestrino di questo benedetto treno che lo riportava finalmente a casa. Ora non c’erano che pochi chilometri per riappropriarsi finalmente della sua vita, per rivedere quella donna altera e quel figlio che certo non lo riconoscerà. 
Oh come sarà cresciuto ormai. Avrà poco più di sette anni, quei sette anni che lui ha trascorso prigioniero in quello sperduto angolo del mondo, in un'Africa ostile e nemica, in un campo insieme con altri sventurati ufficiali italiani.
No, non ricorda, anzi, vuole dimenticare il nome di quel posto. Lui non scriverà, lui no, quei diari di prigionia, non scriverà di battaglie, di eroismi, di sacrifici, di sofferenze. No, lui vuole solo dimenticare, vuole ritornare alle sue terre, a far produrre di nuovo quel grano così pregiato, l’olio prezioso, l’uva, le arance, tutte quelle ricchezze che i suoi accorti antenati gli avevano affidato e alle quali lui aveva dato tutto di se stesso.
Il treno sempre più lento, sembra non arrivare mai a quella stazione sul mare, quando all’improvviso gli sembra tutto più familiare, anzi ha l’impressione d'avere riconosciuto la sua casa tra le rocce. Infatti  per quel magico potere che ha la mente di accantonare i brutti ricordi e di mettere la sordina al dolore, quando c’è lo spazio per un po’ di gioia, tutto il suo essere era proteso verso quell’incontro.
È da poco passata l’una. Il treno si ferma anch’esso esausto, si svuota presto, si svuota la stazione, cerca, cerca con lo sguardo, il cuore in gola.
Ma lì in fondo vede solo un ragazzo, quasi un giovanotto,  che gli fa cenno con la mano e corre verso di lui. Lo coglie una lieve vertigine, forse per tutte quelle ore di treno, oppure per un pensiero che scaccia via quasi con un grido. Ma no, no, lui sa che la guerra li ha risparmiati, e quel ragazzo si avvicina correndo gioioso e lo chiama: “Zio, zio!”  Sì, è lui quel suo caro nipote affettuoso, turbolento, imprevedibile e generoso: “Ciao zio, il treno ha portato troppo ritardo... Sai non trovi nessuno qui ad aspettarti perché  sempre all’una in punto siamo  tutti  a tavola. 
Poi con un accenno di sorriso: “Ma sai come sono  fatto io… a me non è mai piaciuta la troppa puntualità”.
[Tratto da “Racconti spray all’ombra del vulcano” di  Zucchero]




Psicoterapia applicata
Estate. Di quanti anni fa? Parecchi.
Avevo tredici o quattordici anni ed eravamo a villeggiare in una vecchia casa di campagna isolata sulla cima di una collina. Estate, dicevo; con un caldo infernale che durava da tre giorni.
Avete presente un vento africano bollente che soffia ininterrottamente da oltre settanta ore? Quello c’era e da tre giorni c’erano oltre quaranta gradi all’ombra. E di notte la temperatura scendeva di poco.
Nello spiazzo davanti casa c’erano un tavolo di pietra e un sedile pure di pietra. Quella notte decisi di dormire fuori, perché ero stanco di starmene a letto su un materasso che si inzuppava di sudore. Il nostro cane – Dick, un pastore tedesco di tre anni – fu felice di farmi compagnia.
Io ero steso sul sedile e Dick era accucciato vicino a me. Né io né lui dormivamo. C’era qualcosa nell’aria che ci teneva svegli e lui ogni tanto alzava la testa a guardarmi e uggiolava piano, come se volesse dirmi qualche cosa.
Mi misi seduto e pure lui lo fece. E tutti e due guardammo verso il mare, dove la luna piena, tonda e dorata come una gigantesca frittata, andava salendo in cielo.
Ci guardammo negli occhi il cane ed io. E fu come se ci fossimo letti nel pensiero e capii cosa mi stava suggerendo. Gli feci l’occhiolino, ma non mi rispose allo stesso modo, forse perché non sapeva farlo. Ci rigirammo tutti e due verso la luna, alzammo la testa per dare più aria alle corde vocali e, all’unisono, cominciammo ad ululare.
HAAAUUU!!!
HAAAAAUUUUU!!!!!
HAAAAAAAUUUUUUU!!!!!!!
Non so che successe a lui, non me lo disse. Ma io scaricai la tensione nervosa e l’insofferenza che accumulavo da tre giorni; e quella notte dormii come un pascià.
Ancora oggi certe volte lo faccio, senza Dick accanto però, quando c’è luna piena e mi debbo liberare da un senso di oppressione che m’è andato crescendo dentro.
Credetemi, fatelo, funziona. Almeno per me.    









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