Cap. I
Alma
Calaltura, il paese
della mia infanzia, non esiste più. O, per dire meglio, non è più quello dei
miei ricordi. Oggi è un ammasso di case nuove, di viali senza un albero, di piazze
assolate e senza panchine, un caos di macchine posteggiate in doppia fila e di
moto rombanti. Non ci andate, non ne vale la pena. A meno che… a meno che non
vi piaccia girare la sera fra le bancarelle che vendono cianfrusaglie, farvi
assordare dalla musica a tutto volume, mangiare male e pagare molto, litigare
con questo o quello per chi per primo ha visto il buco – rigorosamente in
divieto di sosta – dove posteggiare la
macchina, bighellonare fino alle tre del mattino aspettando che uno dei tanti
bar sforni i cornetti ai gusti più improponibili e fare la fila per comprarli.
E di giorno, in estate, stare stipati sulla spiaggia ad arrostire al sole, fra
bambini che vi urtano, mamme che gridano, papà maleducati che giocano a pallone
sulla battigia.
Non
era così quando ci sono cresciuto io. Allora era un paese di appena cinque o
seimila abitanti equamente divisi fra pescatori e agricoltori. E ci si viveva
bene. In quel punto, a una diecina di chilometri dalla città, la costa fa una rientranza e nel centro di quel piccolo golfo c’è un porticciolo di pescatori, a ridosso di una bassa collina quasi piatta. Un posto benedetto da Dio, perché il mare è pescoso e la terra della collina era fertilissima, irrigata dall’acqua di un fiumiciattolo che sfociava in mare fra la vicina città e il paese.
Sì, ho proprio detto era e poi sfociava, perché meno di trent’anni fa è stata costruita a monte una diga per sopperire alla necessità di energia elettrica di quella che, a pochi chilometri da Calaltura, sarebbe diventata quasi una metropoli. A valle della diga il fiume si è ridotto a un rigagnolo e quelli che erano frutteti e orti si sono trasformati in villette, costruite a ridosso l’una dell’altra. Dove credete che sfocino le fognature di quell’ammasso di costruzioni? Il mare forse è diventato ancora più pescoso, gli abitanti della zona hanno sviluppato gli anticorpi del caso, ma i turisti – e oggi sono molti – ogni tanto si prendono qualche gastroenterite. Ritornano lo stesso però, per la fortuna di Calaltura e dei suoi abitanti.
Calaltura: ci sono due diverse etimologie per spiegarne il nome. La prima, la più semplice, combina insieme cala e altura. La seconda si basa, invece, su quello che restava – ben poco, pietre diroccate e qualche pezzo di muro – di un castello probabilmente risalente alla conquista araba della nostra isola. Restava, dicevo, perché ormai quei ruderi non sono più visibili, coperti come sono dall’asfalto e dal cemento. Kalat el T…, il castello di chissà chi.
Il Castello di Tura, come mia sorella ed io lo chiamavamo, era la meta preferita delle nostre scorribande quand’eravamo bambini. E non lo era solo fisicamente. Spesso la notte, prima di addormentarci, o nei pomeriggi assolati in cui costava fatica anche a noi muoverci e andare in giro, mia sorella diceva: «Andiamo?».
Ed io rispondevo: «Sì, sono pronto. Andiamo».
E la magia dell’immaginazione ci trasportava all’indietro nel tempo, novecento o mille anni prima, in un castello fatato. Da lì regnava, su tutta quella parte di costa, l’emiro Tura; un personaggio fantastico che c’eravamo inventati dopo avere sentito il maestro della scuola parlarci di quella seconda possibile etimologia.
A volte sognavo di essere un cavaliere della scorta, altre l’emiro stesso, altre ancora un ricco mercante che tornava dai paesi dell’oriente con la sua nave carica di stoffe preziose, spezie e profumi. Mia sorella era invece, sempre, la preferita dell’emiro. E ogni volta desiderava, ma non sempre la accontentavo nel sogno ad occhi aperti, che io fossi il Capo delle Carovane.
Abitavamo in una vecchia casa ai margini del paese, proprio sotto la scarpata della collina e a quei tempi c’era poco da stare allegri, anche se i nostri genitori lavoravano tutti e due. Mia madre allo stabilimento che inscatolava il pesce azzurro e dava lavoro a metà delle donne del paese e mio padre in una ditta di spedizioni, collegata alla fabbrica, dove faceva il ragioniere. E io non riuscivo a capire cosa ci fosse mai da ragionare per spedire il pesce in conserva.
Aprivamo spesso di quelle scatolette a pranzo o a cena e ogni volta, mentre papà trafficava con l’apriscatole, Alma – mia sorella – mi sussurrava all’orecchio: «Stavolta, ne sono sicura, non è come le altre volte. Stavolta è davvero azzurro».
E ci rimaneva ogni volta male nel vedere lo sgombro color crema o i filetti d’acciuga marrone. Si era convinta che se il pesce nella scatola fosse stato davvero del colore del mare, allora lei, io, papà e mamma ci saremmo trasferiti per incanto nel castello di Tura, alla corte dell’emiro. O forse papà sarebbe diventato lui stesso l’emiro.
Con padre e madre che lavoravano entrambi, eravamo cresciuti liberi, senza restrizione alcuna se non quella di essere a casa un’ora prima del pranzo o della cena. In un paese piccolo come il nostro, dove tutti si conoscevano e si rispettavano, non c’era nessun problema. I nostri genitori stavano tranquilli e la giornata era tutta per noi.
Alma
era di tre anni più piccola di me, ma molto più vivace. Io sono stato sempre un
sognatore – e per certi versi, con un lato della mia personalità, lo sono
ancora – mentre lei era svelta come un furetto, anche quando sognava ad occhi
aperti. Mentre chiedeva «Andiamo?» era già per strada
e dovevo correrle dietro per non perderla di vista. Piccolina e magra come un
chiodo, con i capelli chiari sempre spettinati, il moccio che le colava dal
naso estate o inverno che fosse, non riusciva a stare ferma un attimo. Ma ero
io il più grande e la responsabilità era mia.
«Alma!…
Alma!... Aspettami! Se cadi o ti perdi finisce che le busco».
Scappava
via ancora più veloce, canzonandomi: «Non cado e non mi perdo. Non ce la fai a
venirmi dietro, sei lento... Sei scemo!».Era una corsa continua per andarle appresso.
Altra meta preferita, oltre al castello, era il porticciolo all’altro capo del paese. Aspettavamo le barche dei pescatori che tornavano nella tarda mattinata e le vedevamo come fossero velieri carichi d’ogni ben di dio. E quando, prima di sera, uscivano quelle che sarebbero state fuori per tutta la notte, nella nostra immaginazione erano zeppe di guerrieri che partivano per le loro spedizioni punitive e andavano a saccheggiare la città che s’intravedeva in lontananza, sulla destra del molo. Avremmo voluto aspettarle fino all’alba, quando sarebbero rientrate cariche di tesori e di schiavi, ma non c’era permesso.
Una volta lo chiesi a mio padre: «Papà, posso dormire al porto?».
«E perché vuoi dormire al porto?».
Giocavamo spesso, con mio padre, a inseguire i miei sogni e non mi vergognai di dirgli: «Perché voglio vedere le navi che tornano cariche di schiavi e di tesori, dopo aver saccheggiato la città».
«Non puoi, ora. Mamma starebbe preoccupata. Ma fra qualche anno potrai farlo».
Ci credereste che lo feci davvero? Dopo tanti anni, tornato in ferie al paese a trovare mia sorella, una notte non andai a dormire e rimasi al porto ad aspettare. Ormai uscivano solo le barche dei turisti, e solo di giorno, ma con gli occhi del cuore vidi egualmente i velieri che scivolavano lenti sull’acqua appena increspata, illuminata dalla luna bassa sull’orizzonte, e mi parve anche di sentire le grida d’esultanza dei guerrieri a bordo e della gente che li attendeva sulla banchina.
Alma era una bambina davvero strana e lo divenne ancora di più dopo aver compiuto i cinque anni. Si fece taciturna e lo sguardo era profondo, assorto, anche quando giocava. Era come se vedesse cose che nessun altro poteva vedere e, come spesso fanno i bambini, parlava con certi suoi compagni di giochi immaginari.
«E che c’è di strano?» dicevano i miei «Tanti bambini lo fanno».
Era vero, molti dei nostri compagni di giochi lo facevano e anch’io a volte. Mai però con quell’intensità, con quel senso del reale che lei riusciva sempre a trasmettere agli altri.
Acquisì poi un’altra particolarità: sapeva sempre dove erano gli oggetti che qualcuno di noi aveva perso.
«Papà, lo sai che quando non trovo qualcosa, Alma mi dice sempre dove la debbo andare a cercare? E non si sbaglia mai».
«Vuol dire che sta attenta a tutto quello che fai e non le sfugge nulla. E che ha una buona memoria mentre tu, distratto come sei, non ti ricordi mai niente».
«Non è vero! Io non sono distratto. E non lo fa solo con me, lo fa con tutti».
La volli mettere alla prova. Una mattina le dissi che dovevo andare di corsa in bagno, mi ci chiusi dentro e saltai fuori dalla finestra. Traversai il cortile, corsi fino al viottolo che si addentrava nella campagna e raccolsi la prima cosa che vidi: un sasso bianco, un pezzo di calcare. Lo nascosi dietro un fico selvatico e tornai dentro. Feci passare un po’ di tempo e poi dissi ad Alma che non trovavo più quella pietra, che lei non aveva mai visto. Chiuse gli occhi, se ne stette immobile per un paio di minuti e poi mi chiese: «È bianca?».
«Sì».
«È grossa così?» e con le mani indicò quanto.
«Sì».
«Se ti dico dov’è, me la regali la barchetta che ti ha fatto papà?».
«No».
«E allora non te lo dico».
Pensai che presto avrebbe perso interesse a quel giocattolo, che altro non era se non un pezzo di legno scavato a forma di piroga, e che me lo sarei ripreso.
«Va bene. Te la do».
«Giura».
Giurai che gliela avrei data e lei mi portò fino all’albero: «Là dietro».
Oggi so come faceva: visualizzava il livello inconscio delle persone, quello dove si imprimono nei minimi particolari tutte quelle cose di cui normalmente non siamo coscienti. Era come se leggesse il pensiero non pensato: mio, degli altri compagni di giochi, di chiunque avesse davanti. Dopo tanti anni me lo confessò lei stessa e mi disse pure che da piccola non l’aveva mai detto per il timore che nessuno volesse più giocare con lei, perché si era resa conto che gli altri erano diversi. Crescendo perse la padronanza di quella capacità, che ora le tornava solo a tratti, all’improvviso, senza che potesse controllarla.
Accedendo a quel livello, percepiva anche la qualità delle persone. Sapeva, come per istinto, chi era buono e chi no; cosa ci si potesse aspettare da uno e cosa da un altro. E anche di questo perse man mano la padronanza. Ma capita all’improvviso che le torni e, guardandomi attentamente negli occhi proprio come faceva allora, mi mette in guardia.
Il
nostro gioco preferito da bambini era quello del Castello di Tura, che ancora a tanti anni di distanza ricordo nei
minimi particolari. Lo schema era sempre identico e le uniche varianti degne di
nota accadevano prima che iniziasse, quando ci radunavamo a casa nostra per avviarci.
Per esempio, quella volta…
Era estate e si capiva che la giornata, anche per
la mancanza di vento, sarebbe stata molto calda. Tutta la banda era riunita già
da mezz’ora nel cortile di casa nostra e aspettavamo che Alma desse il via per
la solita spedizione ai ruderi del castello, ma lei non si decideva. Persi la
pazienza: «Alma!... Che facciamo? Ce ne andiamo?».«No! Ancora no».
«E perché no? Ci siamo tutti e già sono le nove. L’hai sentito l’orologio della chiesa, o no?».
Pippo, che ogni tanto provava a prenderla in giro per sminuirla ai nostri occhi, si fece una bella risata ammiccando verso di noi: «Perché, secondo te, sa contare?».
«Certo che so contare. Fino a cento!… E non ce ne andiamo fino a quando non lo dico io».
Anche Pietro intervenne: «E perché devi decidere tu? Chi ti credi di essere?».
«Ora sono Alma. Ma quando arriviamo al Castello divento la Favorita dell’Emiro. E se non la smettete, gli racconto tutto».
Il tutto cui accennava erano le incursioni nell’orto di Turi, che abitava in una casa colonica vicino ai ruderi. Ci viveva da solo. Doveva essere sui venticinque anni e irradiava un’aria di bontà tutt’attorno a sé. Ogni volta che salivamo su e lui non c’era, scavalcavamo il muro di cinta e raccoglievamo la frutta matura, stando però bene attenti a non fare danni. Quando lo incontravamo lui, diceva: «Lo sapete che sono entrati di nuovo i ladri? Non è rimasto più un solo fico. Ma se li trovo… Gli do una ripassata col bastone a tutti quanti!».
Poi aggiungeva: «Quando salite al castello e io non ci sono, dateci un’occhiata alla casa e all’orto. Ditemelo se vedete qualcuno».
Avevamo tutti una gran paura che ci cogliesse sul fatto e ci prendesse a bastonate, che lo facesse davvero. Tutti meno mia sorella, che non stava mai a sentirlo e una volta mi sussurrò all’orecchio: «Turi lo sa che siamo noi».
«Non ci credo. Se lo sapesse, ci prenderebbe a legnate».
«No, non è vero. Turi è buono e quando raccoglie la frutta ne lascia sempre un po’ per noi».
Era convinta che Turi, forse per la gran barba nera che gli incorniciava il volto, fosse l’emiro. E lei era la favorita dell’emiro.
Aveva detto: “Ora sono Alma. Ma quando arriviamo al Castello divento la Favorita dell’Emiro. E se non la smettete, gli racconto tutto”.
E allora rimanemmo tutti zitti, per paura che lo facesse davvero.
Poi, dalla finestra, vedemmo Turi: stava scendendo con la moto per la strada sterrata che, dal bassopiano in cima alla collina, portava al paese. Aveva avuto ragione Alma a dire che ancora non potevamo andare. Aspettammo ancora cinque minuti e sentimmo il rumore del motore dall’altro lato della strada.
«Possiamo andare!» disse mia sorella.
Quando Alma dava il via, ci incamminavamo in fila indiana attraverso il tratto di terreno fra le ultime case del paese e la collina, tutto coltivato ad alberi di nespole. Era bello camminare là in mezzo e ci toglievamo ogni volta le scarpe, per sentire i piedi affondare nella terra grassa e quasi nera. Dove finivano gli alberi, le rimettevamo e iniziavamo a salire per la scorciatoia che disegnava una serpentina sottile sul fianco della collina. Era una gran salita e se c’era caldo uno alla volta toglievamo le magliette e annodavamo in testa i fazzoletti, come avevamo imparato a fare guardando i contadini.
Terra secca ed erba ingiallita per tutta la salita. Ma, giunti in cima, era come vedere la terra promessa: una distesa verde di orti e di alberi da frutta, disseminata di piccole case coloniche. Più a destra, su una piccola altura, c’erano i ruderi del castello e sotto, a un duecento metri di distanza, la casa di Turi.
Ricordo perfettamente il muro di cinta, alto un paio di metri che a noi sembravano ancora di più. Agostino, il più robusto fra noi, si metteva alla base e incrociava le mani a staffa. Sulle sue spalle saliva Alfredo e anche lui metteva le mani in quel modo. Poi ci arrampicavamo io e mia sorella, che eravamo i più esili fra tutti. Scavalcavamo, saltavamo giù sul mucchio d’erba secca che c’era, ben affastellata, in quel punto sotto di noi e correvamo agli alberi. Allora pensavo che Turi fosse un gran distratto: ogni volta che raccoglieva i frutti, ne dimenticava sempre qualcuno ben maturo. Come pure si scordava di togliere l’erba secca da sotto il muro.
Uscire era ancora più facile. In un tratto il muro che aveva ceduto verso l’interno era stato rifatto, ma molte pietre erano rimaste ammonticchiate alla base. Così era più semplice arrampicarsi e, utilizzando i buchi che erano rimasti fra una pietra e l’altra, arrivavamo agevolmente in cima. Fischiavo, Agostino e Alfredo riformavano la scala, noi passavamo loro la frutta e scendevamo. Non la mangiavamo mai là, per non lasciare tracce e per la paura che tornasse Turi. Insieme al pane, sarebbe stata il nostro pranzo alla corte dell’emiro.
Arrivammo, come sempre, in cima all’altura col fiatone. Come ogni volta, ci precipitammo di corsa verso i ruderi, per prendere ognuno il posto migliore in cui sedersi. Alma no: era certa che nessuno avrebbe occupato quello che, da sempre, era il suo. Giunta là, ogni volta si trasformava. Assumeva un’espressione altera e, camminando lentamente, faceva il suo ingresso in quello che forse era stato un gran salone. Ne rimaneva qualche tratto del pavimento, con delle pietre squadrate abbandonate in mezzo, e una parete semi diroccata con incastonato l’arco ogivale di una finestra.
Passò in mezzo a noi – avevamo formato un semicerchio – e andò a sedersi con le spalle appoggiate alla parete, a destra dell’arco, su un grosso cubo di calcare che forse era stato la base di un pilastro. Stava per assegnare i compiti e pendevamo tutti dalle sue labbra: lei, la Favorita, parlava in nome dell’Emiro ed esprimeva i suoi voleri.
Sì, le cose stavano proprio in quel modo. Alma, la più piccola fra noi, aveva inventato il gioco e lo conduceva assegnando a ognuno sempre la stessa parte, che ogni volta ribadiva con una sorta di investitura sul campo. Quello era il rito che preludeva al gioco e mai ne avremmo fatto a meno. Ci chiamava uno a uno per nome.
«Agostino!».
«Sì!».
«Tu sei il Capitano delle Guardie… Alfredo!».
«Sì!».
«Tu sei il suo Luogotenente… Vittorio!».
«Sì!», ero io Vittorio.
«Tu sei il Capo delle Carovane… Salvatore!».
«Si!».
«Tu sei l’Intendente degli Edifici… Ciccio!».
«Sì!».
«Tu sei il Buffone di Corte».
A quel punto, ogni volta, era una risata collettiva, sia perché Ciccio era proprio buffo a vedersi – aveva le orecchie a sventola e riusciva a muoverle come fanno i cavalli quando una mosca dà loro fastidio – sia perché sapevamo che poi ci avrebbe raccontato le barzellette.
«Carmelo, Giorgio, Marcello! Voi siete i Soldati… Anna, Mariella, Pina! Voi siete le Danzatrici… Sebastiano!».
«Sì!».
«Tu sei il Gran Visir».
Era arrivato il gran momento e lei faceva una pausa, per sottolineare l’importanza di quello che avrebbe detto; poi proclamava: «Ed io sono la Favorita dell’Emiro!».
Salvatore, l’Intendente degli Edifici, si dava delle arie. Il suo compito era quello di tenere in efficienza il castello e lui sognava addirittura di ricostruirlo. Aveva cominciato a portare su delle piccole tavole che rubava a un suo zio falegname e con cui avrebbe voluto fare una tettoia, per poterci riparare quando fosse piovuto.
Da parte sua Sebastiano, ogni volta dopo la nomina, gongolava e ci teneva a precisare che lui parlava per bocca dell’Emiro, senza rendersi conto che avrebbe dovuto dire esattamente il contrario. Non si arrischiava, però, a dire mai una sola sillaba senza aver prima guardato mia sorella e averne avuto un cenno di assenso. Eravamo tutti consapevoli che lei lo teneva in pugno, per chissà quali segreti di cui era a conoscenza.
A quel punto del gioco Alma dava un’occhiata a Sebastiano; lui assentiva e proclamava a gran voce che potevamo dare inizio al pasto. Tiravamo fuori dalle tasche i frutti appena raccolti, le fette di pane che c’eravamo portati dietro e facevamo girare le due borracce dell’acqua. Pane, acqua e frutta. Soltanto questo, ma per noi erano cibi e bevande squisiti: arrosti profumati, timballi di pasta, pesci arrostiti, verdure, dolci, vino buono. Tutto quello che si trovava sulle tavole per Natale o per Pasqua.
Dopo aver mangiato, facevamo silenzio perché quello era il momento in cui Alma avrebbe nominato il nemico.
«Pietro, Pippo! Voi siete i Traditori».
Nella nostra fantasia, dalla vicina città che mai avevamo visto se non da lontano, arrivavano dal mare i pirati pronti a saccheggiare il nostro regno. E noi, che abitavamo nel castello fatato di Tura, dovevamo difenderci e salvaguardare i nostri sudditi. E, come in ogni storia che si rispetti, c’erano fra noi dei traditori pronti a fare entrare il nemico con qualche sotterfugio. Poi il gioco cominciava, ogni volta lo stesso nelle linee generali ma sempre diverso nei particolari.
Anni dopo mi resi conto che la nostra non era altro che una recita a soggetto, su un canovaccio ben collaudato. E capii anche perché Alma investiva Pietro e Pippo delle loro parti solo dopo che avevamo mangiato: se l’avesse fatto prima, avremmo già saputo che erano dei traditori. Avremmo mai potuto permettere loro di consumare il pasto insieme a noi?
Mi resi anche conto che il nostro gioco che, come tutti quelli che fanno i bambini, ci prendeva completamente, nascondeva al suo interno qualcosa di quella che poi sarebbe stata la realtà. Come quella volta che…
La lite covava da tempo e scoppiò furibonda un giorno in cui il tempo non prometteva nulla di buono. Dal mare arrivavano nuvoloni neri e gonfi che si dirigevano veloci verso l’interno, si preparava un temporale estivo e i nostri genitori ci avevano fatto promettere che saremmo rimasti in paese.
Ci ritrovammo alla solita ora nel cortile di casa nostra ed io dissi che non potevamo andare, per via della promessa. Pietro e Pippo – i due pirati, come ormai li chiamavamo anche al di fuori del gioco – non furono d’accordo: «Tu hai promesso. Noi no!».
Alma tentò di zittirli: «Ho promesso anch’io e non possiamo andare».
Non funzionò quella volta: «E chi se ne frega! Noi andiamo lo stesso».
E allora andammo tutti. Non potevamo certo permettere che loro due, i pirati, si ritrovassero da soli nel nostro castello.
Quella mattina Turi era in casa – vedemmo le finestre aperte – e non ci fu possibile raccogliere la solita frutta. Quando arrivammo al castello, il cielo era ormai completamente coperto e il vento era diventato pungente.
Mangiammo di malumore le fette di pane e poi Alma disse: «Pietro, Pippo! Voi siete i Traditori».
Non ci fu il solito «Sì!» di risposta. Pietro la guardò con aria di sfida, si girò verso Pippo e gli fece un cenno con la testa. E Pippo, che era alto e robusto quasi quanto Agostino, si alzò in piedi: «No, da oggi facciamo i turni! Oppure facciamo la conta… Anche le donne».
«Le donne non c’entrano niente. Noi siamo le Favorite» rispose Alma.
«No! Voi siete come tutti e pure voi fate la conta. Anche tu la fai».
Quella era un’insubordinazione in piena regola e ci mettemmo a gridare tutti contemporaneamente contro Pippo e Pietro.
«Silenzio!» disse Alma gelida e fece cenno a Sebastiano di avvicinarsi. Gli parlò all’orecchio e poi lui proclamò a gran voce: «Io sono il Gran Visir e ordino al Comandante delle Guardie di allontanare i Traditori. Non potete più giocare con noi e chiunque vi parla non lo potrà più fare nemmeno».
Agostino, il Capitano delle Guardie, si alzò in piedi. Voleva sembrare minaccioso, ma si vedeva chiaramente che non aveva nessuna intenzione di fare a botte. Gli ordini, però, erano ordini.
Fu a quel punto che scoppiò provvidenziale il temporale. Corremmo tutti a metterci a ridosso del muro, nel tentativo di bagnarci meno possibile. Pietro e Pippo si guardarono in faccia e poi se ne andarono via, correndo sotto la pioggia torrenziale e gridando che ce l’avrebbero fatta pagare. A tutti, e ad Alma per prima.
Si fecero un loro gruppetto, reclutando alcuni dei ragazzi del paese che avevamo sempre escluso dai nostri giochi. Da allora, ogni volta che le due bande si vedevano a distanza, volavano pietre e loro tentavano sempre di espugnare il nostro castello.
A ripensarci mi sembra strano, ma non accadde mai che la mattina li trovassimo padroni del campo. Chissà perché, arrivavano sempre dopo di noi e davano l’assalto. Chissà perché… Forse, pur essendo i traditori, continuavano a rispettare le regole del gioco inventato da Alma. A quei tempi, almeno.