Assettati
Personaggi:
Geronimo (è il suo nickname, non il nome)
Yorky, il cane di Geronimo
io
Il fatto: è vero, anzi verissimo; di mio non ci ho aggiunto assolutamente nulla.
Geronimo lo conobbi una quindicina di anni
fa. Ci presentò un amico comune, che insieme con lui era cresciuto da quando
erano bambini fino a pochi anni dopo il diploma. Poi Geronimo se ne andò in
Svizzera in cerca di lavoro, lo trovò e ci rimase; e trovò anche una moglie,
anche lei trasferitasi là. A proposito, non era la Svizzera italiana o quella
francese; era quella tedesca. E fra questo e la moglie austriaca, Geronimo
divenne mezzo tedesco. Però non si dimenticò mai della Sicilia e della sua
città e, giunto alle soglie della pensione, decise di tornarci. Anche perché
con la pensione svizzera qua avrebbe potuto vivere agiatamente, mentre là non
dico che avrebbe tirato la cinghia ma se la sarebbe passata meno bene.
Insomma, Geronimo venne in avanscoperta,
acquistò un villino alle porte di Nicolosi e tornò in Svizzera per sbrigare le
ultime incombenze. Tre mesi dopo lui, la moglie e il cane si trasferirono dalle
nostre parti.
Fra Geronimo e me, che avevamo molti lati
del carattere in comune oltre a diversi interessi, si venne a creare un legame
parecchio forte. E ci vedevamo almeno una volta alla settimana per delle
riunioni nella casa di campagna di un amico che accoglieva noi ed altri amici
con un piatto di pasta e ceci, due nodi di salsiccia e poi ci chiedeva di
sviscerare qualche argomento che lo appassionava. Ma di questo ve ne parlo
un’altra volta. Ora vi debbo dire di Yorky. Il cane di Geronimo, vi dicevo, che
s’era portato dietro dalla Svizzera.
Una meraviglia di pastore tedesco di
quattro anni, perfettamente addestrato in una scuola svizzero-tedesca. Se
Geronimo gli diceva «Sitzen», quello – anzi quella, perché era
femmina – si sedeva qualunque cosa stesse facendo e aspettava con pazienza che
il padrone le consentisse di alzarsi. Se Geronimo la portava fuori per fare i
suoi bisogni – e la lasciava libera perché tanto non si sarebbe mai allontanata
senza un ordine preciso – e Yorky vedeva un gatto, non partiva in quarta come
tutti i cani di questo mondo. Accennava soltanto a scattare, senza però farlo.
Geronimo gli diceva «Nein» e quella rimaneva ferma guardando il
gatto con un desiderio struggente, che esprimeva uggiolando pian piano.
Ogni tanto andavo a trovare Geronimo a
casa e se qualcuno, incontrandomi, mi chiedeva dove fossi diretto, rispondevo:
«Vado a trovare i miei amici a due e quattro zampe». Ed era vero, perché con
Yorky – e qua vengo al fatto – eravamo grandi amici.
Geronimo mi sfotteva: «Amore a prima
vista, vero?». «Come il tuo» rispondevo, perché lui e la moglie trattavano quel
cane meglio che se fosse stato un figlio.
Quando arrivavo io, Yorky mi si
precipitava incontro: saltava, uggiolava, muoveva la coda a mulinello e mi
portava – e dico bene perché se non ci andavo subito, era capace di
acchiapparmi delicatamente una mano e di trascinarmi – sul prato per giocare. E
là, fra una carezza e una zampata, ci dimostravamo tutta la nostra amicizia.
Dopo un po’ le dicevo: «Ora basta giocare, Yorky. Debbo fare festa anche al tuo
padrone». E mi andavo a sedere per chiacchierare col mio amico.
Solo che, in quelle occasioni, Yorky si
lasciava prendere dalla frenesia della festa – perché anche per lei lo era – e,
anziché accucciarsi accanto al padrone o accanto a me, continuava a girarmi
attorno dandomi ogni tanto una leccata sulla mano.
In quel giorno di cui vi sto parlando,
Geronimo pensò che Yorky mi stesse infastidendo e allora le disse a bassa voce:
«Yorky, sitzen». Lei, contravvenendo a tutte le regole,
non gli diede per nulla retta.
«Yorky, sitzen!», e stavolta il tono di voce era
leggermente più alto. E dato che a Yorky non passava neanche per l’anticamera
del suo cervello di cane di dargli retta, fece l’atto di alzarsi. Gli feci
segno di aspettare e mi alzai io. Mi avvicinai al cane e gli sussurrai
all’orecchio: «Assettati».
Per incredibile che fosse, Yorky si
sedette all’istante. e Geronimo, che ancora non capiva, mi chiese: «Che gli hai
detto?».
«Assettati» gli risposi.
«Ma quella capisce solo il tedesco!».
«Vero è! Ma mi legge anche in testa». E sono davvero convinto che
fosse così.
Il complice
Cocky
e Cockie sono i due miei nipoti, di quasi cinque anni. Sono gemelli, ma
completamente diversi fra loro, sia nel fisico che nel carattere. Il primo è
biondo, di carnagione chiara, normolineo; l’altro è scuro, alto e magro come
una stecca. Cocky è irruento, non riesce a stare un attimo fermo, sforna
monellerie a getto continuo. Cockie è apparentemente più tranquillo; ma solo all’apparenza,
perché lui le monellerie se le studia prima di farle, ci ragiona sopra, se le
prepara. I
nomi con cui ve li presento se li sono scelti loro, da quando cominciarono a
balbettare, e con quelli si rivolgono ancora l’uno all’altro quando sono
immersi nella dimensione del gioco.
Una
mattina, era ancora estate ma minacciava di piovere e non si poteva andare a
mare, mia figlia ci chiese di portarli un po’ in giro per non tenerli chiusi in
casa. Andammo in un centro commerciale, perché là c’era una mostra di dinosauri
ed eravamo sicuri che li avrebbe interessati. E fu proprio così, perché quei
dinosauri erano proprio fatti bene: muovevano la testa, agitavano la coda, i
carnivori mettevano in mostra le file di denti aguzzi, e… (qual è il verso di
un bestione di quel genere?) … facevano sentire una specie di brontolio
minaccioso.
I
bambini rimasero affascinati e anche un po’ intimiditi. Mia moglie teneva per
mano Cocky ed io Cockie, che mi chiese preoccupato: «Ma sono veri?». E gli
occhi gli luccicavano, preso com’era dalla curiosità e da una certa dose di
timore.
«Tu che dici?» gli chiesi.
«Io
non lo so» e mi strinse forte la mano.
«Stai
tranquillo, sono finti».
Corse
dalla nonna per dirle che erano finti e che non si doveva spaventare. E nel
frattempo Cocky si precipitò da me e tutte e due girammo attorno al finto
bestione, che per lui era vero però perché non aveva sentito il discorso fra me
e il fratello.
A
quel punto gli dissi: «Guarda che faccio!». E, mentre mi passava davanti,
acchiappai con una mano la coda che sventolava a destra e a manca e la strinsi
poi anche con l’altra mano. E dovetti ripetere il gioco più volte perché tutti
e due erano rimasti affascinati dalla cosa.
Una settimana dopo i bambini vollero tornare là col padre e la madre e, arrivati davanti al tirannosauro rex, Cocky disse alla madre:
Una settimana dopo i bambini vollero tornare là col padre e la madre e, arrivati davanti al tirannosauro rex, Cocky disse alla madre:
«Mamma, mamma! L’altra
volta il nonno, con le sue folli idee, gli ha acchiappato la coda! Così e poi
così!». E nel frattempo mimava il movimento delle mie mani quella volta, mentre
il fratello sorrideva sornione.
Il nonno con le sue folli idee… aveva fatto una monelleria che a loro sarebbe piaciuta
poter fare.
Sapete
una cosa? Tempo prima, giocando con loro, mi si erano rivolti chiamandomi
Cockie o forse Cocky.
Il nonno, il complice,
con le sue folli idee…
La Rossa
Lasciò
la macchina al parcheggio scambiatore e prese l’autobus per andare in centro.
C’era ancora qualche posto a sedere ma preferì, come sempre faceva, rimanere
all’impiedi. Tanto, anche se si fosse seduto, non appena il bus si fosse
riempito avrebbe ceduto il posto a qualche bella signora.
Eh,
sì! Arturo aveva un debole per le belle signore; e anche loro l’avevano per
lui. A sessantadue anni era in perfetta forma e, fino a quel momento, non se
n’era lasciata scappare una. “Ogni lasciata è persa”, diceva sempre.
La
ragazza era un fiore di ragazza. La classica rossa con la carnagione chiara e
gli occhi verdi; snella, ma con le forme giuste al posto giusto, e un sorriso
malizioso che le affiorava ogni tanto sulla bocca tornita senza che lei se ne
rendesse conto. Era sovrappensiero quella mattina e guardava nel vuoto di
fronte a sé, cercando di immaginare che domande le avrebbero fatto. Stava
andando a sostenere un esame all’università e, come sempre in quei casi, si
lasciava prendere dall’ansia. Arturo
le era di fianco, a un metro di distanza, e cercava di osservarla senza farsi
notare troppo. Gran bella ragazza, pensava. E cercava di immaginarsela – e non era
difficile perché fantasia, almeno in quel campo, ne aveva a iosa – in piedi e
con meno vestiti addosso. E quel sorriso, che le si vedeva agli angoli della
bocca, gli dava una stretta allo stomaco. Poi si accorse che quella lo guardava
fisso.
La conosco? si chiese. No,
se l’avessi già incontrata, me la ricorderei di certo. Come si fa a dimenticare
una così? E allora? E allora vuoi vedere che…
E
al pensiero del “che…” si sentì rimescolare dentro e si girò a guardarla
direttamente.
La
ragazza se ne accorse e smise di pensare all’esame.E questo che vuole? si domandò. Vuoi vedere
che ho fatto colpo?... Ma non si vergogna alla sua età, ‘sto vecchio che è
convinto che una di vent’anni gli cade ai piedi non appena la guarda? Lo
aggiusto io ora! Ora gli faccio fare una figura di merda che se la ricorderà
per sempre... Anche se è un tipo interessante; ai suoi tempi questo ne deve
aver combinati di tutti i colori. È pure simpatico, ma lo metto a posto lo
stesso.
Si
alzò leggera come una piuma, sapendo bene l’effetto che questo faceva sugli
uomini, e gli rivolse la parola a voce ben alta e scandendo le parole: «Signore,
mi scusi. Io… io vorrei pregarla di sedersi al mio posto. Io sono giovane» e
calcò sul giovane «e lei sembra stanco. Mi scusi, ma capisco che alla sua età…»
e alzò il tono della voce sull’ultima parola.
Arturo,
per la prima volta in vita sua, rimase senza parole di fronte a una bella
donna. Le fece segno di no, si girò
dall’altro lato e si ritrovò a pensare che gli anni che aveva addosso gli si
vedevano tutti. E forse anche qualcuno in più. Doveva stare attento a non farsi
scoprire ad ammirare quelle giovani. Peccato, però. Era un vero peccato…
Van Gogh
Paolo, il fratello maggiore di Peppe,
aveva un problema; anzi due: doveva traslocare e non si poteva permettere di
spendere soldi. E allora si rivolse al fratello:
«Non è che tu e i tuoi amici
mi dareste una mano?».
«Che dovremmo fare?».
«Il grosso l’ho già portato io a casa
nuova, ma c’è ancora qualche carabattola da trasferire. Una di queste sere…».
«Si può fare pure stasera, ci dovevamo
vedere dopo cena. Ma tu che ci dai in cambio?».
I due fratelli raggiunsero l’accordo e
quella sera Peppe, Vicè, Ciccio ed io faticammo per quasi quattro ore scendendo
i mobili – “carabattole” le aveva chiamate Paolo – giù per le scale dal secondo
piano, caricandole poi sulla macchina del fratello di Peppe e trasferendole al
nuovo appartamento al terzo piano.
Ci levammo la salute, anche se a vent’anni
si può fare questo e altro. Alla fine restammo padroni della vecchia casa di
Paolo e della fila di bottiglie ch’erano prima nel mobile bar. Ci aspettava una
sbronza coi fiocchi e cominciammo a darci sotto. L’unica bottiglia piena per
intero era di brandy; e la svuotammo coscienziosamente perché ci serviva il
vuoto, che poi riempimmo con un cocktail degli altri liquori. La base era
cherry e così il miscuglio assunse il colore pastoso del vino.
Uscimmo a passeggiare con la bottiglia
sottobraccio e andammo al Belvedere dove, all’aria fresca di una serata di fine
ottobre, ce la scolammo quasi per intero. A quel punto eravamo fradici. E fu allora
che io alzai gli occhi a guardare il cielo – era quasi l’una di notte – che era
terso e senza una nuvola. E rimasi folgorato e mi sdraiai a terra per vederlo
meglio. Due o tre minuti mi dissero che ero rimasto con la faccia all’aria, ma
per me fu un’eternità in cui fui felice come una pasqua. Volete saper cosa vidi? Facile a dirsi ma
difficile a immaginare. Guardate questo quadro di Van Gogh, Notte stellata sul Rodano, mentre là,
sotto il Belvedere, c’era invece il mare.
No, non vedevo una cosa così; io vedevo la
fine del processo, quando tutto il blu era diventato color delle stelle e le
stelle erano diventate blu. Il negativo del cielo notturno.
Rimasi estasiato, quasi in trance. Ancora
oggi me lo ricordo nitidamente e non ho mai capito come una cosa così bella e
strabiliante mi fosse potuta accadere. Gli altri non videro niente.
Erano le tre di notte, eravamo all’ultimo
stadio della sbronza e decidemmo di rientrare alle rispettive case. Io avevo in
mano la bottiglia con ancora tre dita di quel miscuglio infernale, ma nessuno
aveva il coraggio di bere ancora. Passando dalla piazza vedemmo la luce accesa
nel bugigattolo di don Nardo, il panellaro. Ci dirigemmo là.
«Don Nardo, chi ci fa a ‘stura aperto?» gli chiedemmo.
«Priparu a pasta pi panelle pi tutta a
simana. Nunn’avevu sonno e vinni a travagghiari».
Ci guardò in faccia uno per uno e chiese:
«Com’era
u vinu, picciotti?».
«Bonu era: nettari» gli risposi.
«U voli
‘stu canticchia c’arristò?».
«Sì, è megghiu ca mu vivu io».
Allungò la mano, prese la bottiglia e
bevve a garganella pensando che fosse vino. Per poco non rimise l’anima. Bestemmiò,
ce ne disse di tutti i colori, poi ci ripensò e la svuotò fino all’ultima
goccia. «Dove trenta, trentuno», s’era messo a parlare in perfetto italiano,
cosa che mai gli avevo sentito fare. «Vero nettare era…E ora, se ce la fate,
tornatevene alle vostre case e lasciatemi lavorare».L’indomani non andammo a fare colazione,
come ogni giorno facevamo, da don Nardo. Chissà che aveva combinato preparando
le panelle.
Il sergente Honey-life
Il sergente Honey-life
Sudan, Giugno 1989
Mancava un’ora al tramonto e l’ampio cerchio
di terra battuta su cui sorgeva il villaggio era in piena luce. Venti capanne
di tronchi leggeri e col tetto di paglia, disposte in cerchio, con al centro il
recinto degli animali dove c’erano solamente due vacche; magre al punto da
mostrare tutte le costole.
Erano in dodici, acquattati fra l’erba alta della savana, ormai ingiallita, che circondava il villaggio. Una brezza leggera muoveva gli steli secchi e il rumore dei loro movimenti non poteva essere distinto. Osservavano la scena da un’ora e avevano visto solo vecchi, donne e bambini. Gli uomini validi dovevano aver portato il resto del bestiame ai pascoli sulle montagne, parecchio distanti verso nord.
Erano in dodici, acquattati fra l’erba alta della savana, ormai ingiallita, che circondava il villaggio. Una brezza leggera muoveva gli steli secchi e il rumore dei loro movimenti non poteva essere distinto. Osservavano la scena da un’ora e avevano visto solo vecchi, donne e bambini. Gli uomini validi dovevano aver portato il resto del bestiame ai pascoli sulle montagne, parecchio distanti verso nord.
Gli otto terroristi – loro si
definivano guerriglieri del Fronte di Liberazione – cui davano la caccia da una
settimana, seguendoli a distanza e colmando man mano il vantaggio che avevano,
erano là ormai in trappola. Li avevano raggiunti finalmente ed ora la fortuna
era dalla parte dei cacciatori. Gli uomini in fuga si erano fermati, stremati
come loro che li inseguivano, per passare la notte nel villaggio. Avevano
macellato una capra, si erano ingozzati di cibo e avevano lasciato a guardia
due sentinelle che stentavano a tenere gli occhi aperti. Gli altri sei erano
dentro le capanne e sicuramente dormivano. Anche le donne, i vecchi e i bambini
del minuscolo villaggio erano nascosti dentro le capanne. A parte le due vacche
e le sentinelle insonnolite, nulla si muoveva.
Come sempre in quei casi – non
era la prima volta che effettuavano azioni del genere – pianificarono quello
che c’era da fare nei minimi dettagli. A gesti, senza scambiare una sola parola.
Avrebbero posizionato le due mitragliatrici sul rialzo che fronteggiava il
villaggio, a circa cinquanta metri di distanza. Una a destra, a ore due,
l’altra a sinistra, a ore nove. Gli altri dieci uomini avrebbero circondato lo
spiazzo, intervallati a distanze regolari. Poche brevi comunicazioni con i
walkie–talkie. La prima – uno, due, tre
– per dare l’avvio al torrente di fuoco
che sarebbe durato un paio di minuti: prima sulle due sentinelle, poi sulle
capanne – dieci secondi per ognuna – e dopo ancora su tutto lo spazio. Allo stop avrebbero cessato il fuoco. Due
minuti di pausa. Se qualcuno fosse uscito dalle capanne, l’avrebbero abbattuto.
Se non fosse successo niente, al vai
sarebbero avanzati velocemente capanna per capanna. Due capanne per ogni uomo.
Bomba a mano all’interno della prima e via sulla seconda. Dopo sarebbero
tornati indietro: ogni uomo si sarebbe affacciato sulla soglia di una capanna,
sparando a raffica, per poi passare a quella successiva. Tutto questo mentre i
due alle mitragliatrici sarebbero rimasti sulle loro posizioni, con l’intero
villaggio sotto tiro. In meno di cinque-sei minuti sarebbe finito tutto. Una
nottata di riposo e, all’alba, sarebbero tornati indietro. Li aspettava
un’altra settimana di marcia a tappe forzate, con le sole razioni di emergenza
come viveri, col pesante equipaggiamento sulle spalle, la stanchezza di giorni
e giorni di cammino e il desiderio di fiumi di acqua, di cibo abbondante e di
un letto.
Un altro modo per portare a
termine la missione ci sarebbe stato: avrebbero potuto richiedere via radio
l’intervento degli aerei. Due bombe al napalm e non sarebbe rimasto niente, né
dei terroristi né del villaggio. Ma si sarebbe dovuta aspettare l’alba, col
rischio che quegli assassini riprendessero la marcia col buio. No, meglio agire
subito. Loro erano delle unità scelte, perfette macchine da guerra addestrate
ad agire senza pensare e a obbedire agli istinti omicidi posti al servizio di
una giusta causa. E anche quando il condizionamento avesse loro permesso di
riflettere, non ci sarebbe stato nessun dubbio: sarebbe valsa la pena di
sacrificare un pugno di indigeni per salvare da quei criminali chissà quante
vite – centinaia, forse migliaia, in paesi civili – che avevano ben altro
valore.
Sempre a segni John Reins, il
tenente che comandava il gruppo, chiese se c’erano domande. Nessuna. Diede il
via all’operazione e si andò a posizionare a ore due con la mitragliatrice.
Aveva tutto il villaggio sotto tiro. Compito suo era anche quello di dare i
pochi ordini via radio. Sentì nell’auricolare: in posizione; era il secondo mitragliere. Poi, uno ad uno, anche
gli altri diedero lo sta bene con un secco okay
seguito dal proprio numero. Il tenente attese ancora due minuti, poi cominciò a
contare nel microfono: «Uno… due… tre».Al tre cominciò a sparare,
contemporaneamente all’altro mitragliere. Il secco ta-ta-ta-ta delle armi
riempì l’aria. Le due sentinelle caddero senza avere avuto neanche il tempo di
accorgersi di cosa stesse succedendo. Concentrò il tiro per dieci secondi su
ogni capanna. Lo stesso faceva l’altro. Rami secchi di alberi, pezzi di
tronchi, paglia e fango volavano in tutte le direzioni. Infine inondarono tutto
lo spiazzo di proiettili. Alcune sagome si erano catapultate fuori dalle
capanne ed erano state falciate in mezzo agli sbuffi di terra che si
sollevavano dappertutto. Una aveva sparato all’impazzata, alla cieca, urlando.
Di sicuro avevano già eliminato tre dei terroristi.
«Stop!».
Il fuoco cessò di colpo. Mentre –
lentissimamente – trascorrevano i due
minuti prestabiliti, controllò lo spazio antistante scandagliando il terreno
metro per metro. Due delle capanne non esistevano più, qualcuna era
semidistrutta, le altre erano sventrate. Cinque corpi a terra in pose scomposte.
I dieci uomini, in piedi e immobili ai loro posti, circondavano il villaggio
controllando ognuno il proprio settore. Le due vacche erano a terra in un lago
di sangue.
«Vai!».
Gli uomini scattarono. Ognuno di
loro, piegato in due col mitra in una mano, staccava la sicura con i denti, lanciava
la bomba dentro la capanna e correva a quella successiva. Poi tornarono
indietro sempre velocemente. Ciascuno si affacciò sulla soglia di quello che
era rimasto di una delle due costruzioni assegnategli, diede tre-quattro
sventagliate e passò avanti all’altra capanna.
Il sergente entrò nella seconda
capanna e sparò più volte a raffica con un movimento circolare. Staccò il dito
dal grilletto: l’arma s’era inceppata. A terra, in mezzo al sangue, c’era il
corpo di un bambino. Poteva avere sì e no dieci anni. Poi, nella semioscurità,
vide il biancore di un paio di occhi. Mentre tirava fuori la pistola, la donna
si avventò, mostrando i denti di un bianco quasi innaturale sul volto più scuro
della pece, le mani tese ad artiglio. Il sergente sparò tre colpi e la donna si
accasciò. Si guardò attorno – l’arma pronta – e, fra una massa di stracci, vide
un altro paio d’occhi spalancati, ma diversi da quelli della donna. Si avvicinò.
Era un bambino di pochi mesi, sano e salvo, completamente ammutolito dal
terrore per il frastuono. Per un attimo pensò di portarlo con sé sulla via del
ritorno. No, non sarebbe mai sopravvissuto alla marcia a tappe forzate senza
l’unico cibo adatto: il latte. Se l’avessero lasciato al villaggio, sarebbe
morto di fame o di sete. Non c’era via di uscita. Il sergente sparò mirando fra
gli occhi.
Dal basso ventre s’irradiò una
fitta acutissima di dolore. Si tastò e si guardò: nessuna ferita. Il dolore si
era fatto lancinante, acutissimo, e avanzava velocemente verso l’alto con un bruciore
insostenibile. Ardeva come fuoco, torceva i nervi e toglieva il respiro. A un
tratto non vide più niente, se non gli occhi nel buio. Quelli del bambino,
ancora aperti, pieni di vita, anche se sapeva senza possibilità di dubbio che
l’aveva ucciso.
Il sergente Mary
Honey-Life, delle unità scelte dell’esercito, pluridecorata al valore, che
durante quegli anni aveva visto tutto l’orrore di quella guerra non dichiarata
e ancora di più, mise la canna della pistola in bocca e premette il grilletto.
[Tratto da Racconti allo specchio e altre storie –
Amazon, 2013]
E' arrivato il primo contributo alle ministorie.
Da leggere e gustare!
Grazie, Zucchero
L’ora di pranzo
Il ricordo dello sguardo di lei posato sul
loro bambino così piccolo, gli sfuggiva in fretta così come la campagna dal
finestrino di questo benedetto treno che lo riportava finalmente a casa. Ora
non c’erano che pochi chilometri per riappropriarsi finalmente della sua vita,
per rivedere quella donna altera e quel figlio che certo non lo riconoscerà.
Oh come sarà cresciuto ormai. Avrà poco
più di sette anni, quei sette anni che lui ha trascorso prigioniero in quello
sperduto angolo del mondo, in un'Africa ostile e nemica, in un campo insieme
con altri sventurati ufficiali italiani.
No, non ricorda, anzi, vuole dimenticare
il nome di quel posto. Lui non scriverà, lui no, quei diari di prigionia, non
scriverà di battaglie, di eroismi, di sacrifici, di sofferenze. No, lui vuole
solo dimenticare, vuole ritornare alle sue terre, a far produrre di nuovo quel
grano così pregiato, l’olio prezioso, l’uva, le arance, tutte quelle ricchezze
che i suoi accorti antenati gli avevano affidato e alle quali lui aveva dato
tutto di se stesso.
Il treno sempre più lento, sembra non
arrivare mai a quella stazione sul mare, quando all’improvviso gli sembra tutto
più familiare, anzi ha l’impressione d'avere riconosciuto la sua casa tra le
rocce. Infatti per quel magico potere che ha la mente di accantonare i
brutti ricordi e di mettere la sordina al dolore, quando c’è lo spazio per un
po’ di gioia, tutto il suo essere era proteso verso quell’incontro.
È da poco passata l’una. Il treno si ferma
anch’esso esausto, si svuota presto, si svuota la stazione, cerca, cerca con lo
sguardo, il cuore in gola.
Ma lì in fondo vede solo un ragazzo, quasi
un giovanotto, che gli fa cenno con la mano e corre verso di lui. Lo
coglie una lieve vertigine, forse per tutte quelle ore di treno, oppure per un
pensiero che scaccia via quasi con un grido. Ma no, no, lui sa che la guerra li
ha risparmiati, e quel ragazzo si avvicina correndo gioioso e lo chiama: “Zio, zio!” Sì, è lui
quel suo caro nipote affettuoso, turbolento, imprevedibile e generoso: “Ciao zio, il treno ha portato
troppo ritardo... Sai non trovi nessuno qui ad aspettarti perché sempre
all’una in punto siamo tutti a tavola.
Poi con un accenno di sorriso: “Ma sai come sono
fatto io… a me non è mai piaciuta la troppa puntualità”.
[Tratto da “Racconti spray all’ombra del
vulcano” di Zucchero]
Psicoterapia applicata
Estate. Di quanti anni fa? Parecchi.
Avevo tredici o quattordici anni ed
eravamo a villeggiare in una vecchia casa di campagna isolata sulla cima di una
collina. Estate, dicevo; con un caldo infernale che durava da tre giorni.
Avete presente un vento africano
bollente che soffia ininterrottamente da oltre settanta ore? Quello c’era e da
tre giorni c’erano oltre quaranta gradi all’ombra. E di notte la temperatura
scendeva di poco.
Nello spiazzo davanti casa c’erano
un tavolo di pietra e un sedile pure di pietra. Quella notte decisi di dormire
fuori, perché ero stanco di starmene a letto su un materasso che si inzuppava
di sudore. Il nostro cane – Dick, un pastore tedesco di tre anni – fu felice di
farmi compagnia.
Io ero steso sul sedile e Dick
era accucciato vicino a me. Né io né lui dormivamo. C’era qualcosa nell’aria
che ci teneva svegli e lui ogni tanto alzava la testa a guardarmi e uggiolava
piano, come se volesse dirmi qualche cosa.
Mi misi seduto e pure lui lo
fece. E tutti e due guardammo verso il mare, dove la luna piena, tonda e dorata
come una gigantesca frittata, andava salendo in cielo.
Ci guardammo negli occhi il cane
ed io. E fu come se ci fossimo letti nel pensiero e capii cosa mi stava
suggerendo. Gli feci l’occhiolino, ma non mi rispose allo stesso modo, forse perché
non sapeva farlo. Ci rigirammo tutti e due verso la luna, alzammo la testa per
dare più aria alle corde vocali e, all’unisono, cominciammo ad ululare.
HAAAUUU!!!
HAAAAAUUUUU!!!!!
HAAAAAAAUUUUUUU!!!!!!!
Non so che successe a lui, non me
lo disse. Ma io scaricai la tensione nervosa e l’insofferenza che accumulavo da
tre giorni; e quella notte dormii come un pascià.
Ancora oggi certe volte lo
faccio, senza Dick accanto però, quando c’è luna piena e mi debbo liberare da
un senso di oppressione che m’è andato crescendo dentro.
Credetemi, fatelo, funziona.
Almeno per me.
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